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Una città per cantare o per piangere?

Non so perché pensando a Lamezia mi frulla in testa una canzone di Ron risalente agli anni ’80: una città per cantare. Mi spinge l’invidia o la gelosia? Non lo so, certo è che mi crea malessere il fatto che altrove si canti, ed alla luce del sole, mentre a Lamezia si abbaia alla luna, quando la poca luce è inghiottita dalle ombre. Forse la risposta è da trovare nel mio subconscio. Appena avrò il tempo di  stendermi sul lettino di un mio amico strizzacervelli mi farò analizzare per risalire alle origini di questo mio ancestrale buco nero.
Intanto, permeato da pragmatismo deweyano, prendo atto che a Lamezia gli unici cantori, infischiandosene dell’ispirazione musicale di Ron e compagni, sono i mafiosi pentiti o pseudo tali, che ormai da tempo immemorabile, strimpellano in si bemolle recitando a soggetto fatti, misfatti e malefatte di ‘ndrangheta,  ‘ndrine, cosche e famiglie del luogo.
Chiedo venia se l’ordine cupolare su menzionato non è giusto; vorrà dire che mi farò dare qualche lezione dai colleghi della stampa cittadina specializzata in pubblicazione di verbali, di interrogatori, di confessioni rese da questo o quel pentito e degli eventuali messaggi subliminali contenuti nei verbali stessi.
Tanto premesso, malgrado la buona volontà e gli intenti degli amministratori che si sono avvicendati negli ultimi ventidue anni – Lo Moro, Speranza e Mascaro per la sua parte – le tomografie computerizzate lametine fanno registrare un degrado progressivo ed inarrestabile verso l’annichilimento di una città che era nata per cantare, non per piangere.
A giudicare dagli accadimenti, la città della piana – presuntuosamente appellata la terza della Calabria – è in caduta libera, con le aggravanti prevalenti sulle attenuanti. Lo testimoniano le progressive ed inarrestabili chiusure degli uffici che accreditavano la presenza dello Stato: la chiusura del carcere, il ridimensionamento dell’Inps, la riduzione dei reparti e dei servizi dell’ospedale, il piano gestionale delle ferrovie, nonché il tentativo, ancora in fieri – di minare alle basi quello che è il fiore all’occhiello: l’aeroporto lametino.
Resiste l’agenzia delle entrate, turris eburnea ed a buona ragione, aggiungo. Perché Lamezia, non è la sola in regione,  è una città dall’economia sommersa. Quattro soldi di Pil, creato da pensionati, impiegati di stato e parastato,  da qualche partita Iva e da qualche volenteroso artigiano. Di contro quattordici corposi istituti di credito, decine e decine di finanziarie, un parco macchine di considerevole consistenza non solo come numero, ma anche come cilindrata.  Una città, quindi, che vive – oggi come ieri – spendendo più di quanto produca.
In questo contesto si “muove” una classe politica che non c’è, o meglio che brancola nel buio ed, ancor di più, ha giocato e gioca a cavacecio. Non è accettabile né possibile che ad oggi Lamezia non abbia ancora indicazione – non quella parolaia – sulle direttrici di sviluppo e non abbia  preventivamente prodotto  gli strumenti idonei a supportare gli obiettivi da perseguire.
Finisco qui, ripromettendomi di “sentire” su questi argomenti, prima di ogni altro, i consiglieri comunali  dell’opposizione, anche per dare loro voce e spazi che non trovano altrove.