Nel 2007 il libro del filosofo-economista Serge Latouche La scommessa della decrescita (Feltrinelli Ed.), poneva in modo netto un problema col quale noi occidentali dovremo prima o poi fare i conti: l’insostenibilità economica di una crescita illimitata del benessere, sia per la inevitabile limitatezza di risorse a disposizione, sia perché, pur consentendo all’uomo della società occidentale un comfort sempre maggiore, gli impone uno stile di vita stressante in un contesto di inevitabili disuguaglianze ed ingiustizie. Latouche proponeva una decrescita controllata e programmata dagli stati. Un ritorno graduale ad altri tempi ed altri valori. La mia generazione, quella dell’immediato secondo dopoguerra, ha conosciuto qualcosa di simile: la difficoltà di gran parte delle famiglie a far quadrare i conti della spesa quotidiana; la riduzione dei consumi perché si guadagnava poco; l’obbligo a riciclare quasi tutto dai resti del cibo alla carta dei giornali. Anche perché non c’era ancora l’invasione della plastica, degli elettrodomestici, delle batterie e delle medicine. Gli abiti dei più grandi si riciclavano adattandoli ai più piccoli e di scarpe in genere ce n’erano un paio per tutti i giorni e un paio più buone per i giorni di festa. In alcune famiglie mancavano anche queste.
Poi arrivarono i primi televisori e frigoriferi, la seicento, i vestiti dei grandi magazzini. In un’economia in crescita in cui si diffondeva l’uso delle cambiali, il debito delle famiglie trovava l’equilibrio nel lento e progressivo aumento degli stipendi che accompagnava e favoriva la produzione industriale e il commercio.
All’indebitamento dei privati si aggiunse quello dello stato, che finanziava la creazione di infrastrutture e imprese pubbliche, e favoriva così la crescita del terziario con scuole, ospedali, ferrovie e autostrade. Anche in questo caso si riscontrò un equilibrato rapporto tra debito pubblico e crescita del PIL nazionale con evidenti possibilità di rientro della spesa.
Quando nei decenni successivi la spesa dello stato cominciò ad aumentare in maniera eccessiva, i governi, per continuare a sostenere la crescita, effettuavano di tanto in tanto una svalutazione programmata della lira che, deprezzata, favoriva l’esportazione dei beni prodotti in Italia, rendendo più costosi i prodotti esteri e più agevole il pagamento dei debiti. Questo sistema, che penalizzava tutti in proporzione al reddito, si è infranto sotto la spinta di due fattori: la nuova direzione intrapresa dall’economia mondiale col ritorno al liberismo sfrenato con l’amministrazione Reagan negli USA e la Thatcher in Inghilterra, e l’adozione dell’euro in alcuni stati dell’ Europa. Il primo, lasciando mano libera ai privati e soprattutto alle banche e alla finanza internazionale, ha provocato la crisi gravissima del 2008. Il secondo ha impedito a Paesi come l’Italia di riportare in equilibrio la finanza pubblica con la solita svalutazione periodica, provocando un progressivo aumento del debito pubblico.
A rendere oggi più cupa la situazione sono le notizie che giungono dagli USA: “gli americani oggi si ritrovano con più debiti del 2008, quando galleggiavano sui picchi della “bolla del credito” che di lì a poco avrebbe fatto collassare il sistema finanziario mondiale. Purtroppo però è la dura verità. La Federal Reserve di New York ha di recente annunciato un nuovo record storico per il debito privato statunitense: 12,7 trilioni di dollari (ovvero 12.700 miliardi). Una cifra enorme, pari a oltre cinque volte il nostro debito pubblico.” (Enrico Marro, Sole24Ore, 7 giugno 2017)
Ci sono poi i dati relativi al debito pubblico USA che ormai si aggira intorno ai 20mila miliardi di dollari, di cui oltre due terzi (13.700 miliardi di dollari) detenuti da risparmiatori privati, 2.800 miliardi dal sistema pensionistico americano, ormai indebolito dalla perdurante crisi economica, e 6.281 miliardi di dollari, pari al 31,5%, detenuto da investitori esteri, in particolare Giappone e Cina. (dati da Paolo Migliavacca, Economista, Econopoly 10 Marzo 2017)
Il succo del discorso, al di là dei numeri, è che il sistema finanziario mondiale prosegue imperterrito nella politica economica che dagli anni ottanta ha lasciato alle multinazionali e alle banche la possibilità di aumentare i profitti con operazioni speculative che sostengono l’indebitamento, anche quando il rischio del mancato recupero è alto. Inoltre molti stati ad economia avanzata, invece di ridurre il debito pubblico come sarebbe logico, lo stanno facendo crescere. E questo accade anche in l’Italia, malgrado le dichiarazioni dei governi di volerlo ridurre.
Questi dati sono a disposizione di tutti i governi, ma nessuna parte politica ne vuole trarre le logiche conclusioni, perché ciò significherebbe ammettere che la crescita illimitata del benessere è un’illusione e che le politiche conseguenti sarebbero quelle di ridurre le spese delle famiglie, di riqualificare la spesa pubblica eliminando sprechi, malaffare e tangenti, di recuperare soldi dai redditi privilegiati per metterli a disposizione degli investimenti in infrastrutture, miglioramenti ambientali e sicurezza degli edifici. Ma chi ha il coraggio di dirlo sapendo di perdere il consenso di tanta parte della società?
E allora bisogna convincere gli elettori che le cose presto andranno meglio e che il sistema si riequilibrerà da solo. Il che certo avverrà, ma purtroppo nel modo peggiore.