“Adamàntem me genuit et Arnust appellatus fui”. Traduco: Diamante mi diede i natali e fui chiamato Ernesto, nome che fa rima con “onesto”, titolo di una mia satira degli anni sessanta. L’Ernesto di allora non è quello di oggi, ma per i vichiani corsi e ricorsi storici oggi mi imbatto con un altro Ernesto, l’adamantino Magorno deputato a Montecitorio nonché segretario dell’ ormai squinternato Pd calabrese condannato, per idiozia politica, ad aspettare nell’angolo del ring il gong liberatorio dell’ultima ripresa.
Potrete non crederci ma il destino degli umani comincia nel momento in cui l’impiegato della anagrafe annota, ieri su polverosi libroni oggi con un asettico clic, che è nato il tal dei tali. Ecco perché il nome dei nascituri deve scaturire da momenti di profonda riflessione.
Immaginate per un attimo il travaglio interiore di chi andò a far “registrare” la nascita del nostro Ernesto Magorno, che se fosse stato appellato con un banale Pasquale, Antonio, Giuseppe certamente sarebbe diventato non più di un muratore, un amanuense e nel peggiore dei casi un comune delinquente.
Invece no, Ernesto appellatus fuit perché Arnust nell’antico tedesco significa valoroso combattente come l’aquila, nome molto diffuso in provincia di Bolzano. Va bene la cicogna, infreddolita, nel ’61 sbagliò rotta ed anzi che depositare il prezioso fardello tra i monti nevosi preferì lasciare il gioiello sulla splendida Riviera dei Cedri. Ma questo è un altro film.
Il solo nome, però, non basta: conta anche la data in cui si viene alla luce, cd. ascendente, ed il segno zodiacale. Il nostro Arnust è un “gemelli”, quindi una personalità un po’ ballerina – mi dice un quotato astrologo – per cui il soggetto potrebbe oscillare tra le sublimi vette della purezza e le turpi meschinità umane.
Certo la chiromanzia non è il mio forte, ma a giudicare dai risultati ottenuti alle ultime elezioni amministrative calabresi ed allo stato confusionale nel quale versa il pd, penso quanto sia azzeccato e valido quel malevolo mottetto, circolante nei corridoi dai passi felpati, che recita: c’è di mezzo Magorno? Allora il Pd è tolto di torno.
Tralascio maldicenze, supposizioni, illazioni, pettegolezzi e quant’altro perché i se ed i ma non hanno mai fatto storia, ma ciò non mi esime dal registrare che le strategie politiche di Magorno ed accoliti hanno portato, in Calabria, ad un fallimento elettorale e politico di proporzioni catastrofiche: praticamente il Pd è stato azzerato in quasi tutta la regione.
Non è che nel resto della penisola le cose siano andate meglio anzi le alchimie, finalizzate solo alla coltivazione del proprio orticello ed alla costituzione di reticolati atti a garantire la propria sopravvivenza politica, alla fin fine hanno dato ragione a chi aveva già preconizzato un faraonico insuccesso. Solo il nostro ineffabile Ernesto, con orgoglio e sincera emozione , a fronte del suicidio collettivo del Pd calabrese, ha gridato urbi et orbi ….consegno al segretario nazionale dei democrat anche il voto chiaro espresso dai calabresi che riconoscono in lui un insostituibile punto di riferimento…
In tempi andati solitamente le competizioni elettorali sono sempre state il banco di prova della bontà delle strategie politiche messe in atto, della sagacia e dell’apprezzamento della leadership.
Ebbene Magorno ha mancato tutti gli obiettivi a cominciare da Lamezia Terme ed a seguire Vibo Valentia, Cosenza, Crotone e, ciliegina sulla torta, Catanzaro.
Vivaddio non si può far passare Caporetto per Vittorio Veneto anzi è arrivato il momento di prendere atto che l’aquila diamantina ha perduto le ali e con esse l’eroico cipiglio. Chiuso nel silenzio oggi medita sugli errori commessi, sui funambolismi ed i magheggi messi in atto in occasione del referendum e sull’ endorsement regionale di Oliverio che da anti renziano, per una contropartita che forse mai arriverà (la nomina a commissario della sanità calabrese), è divenuto paladino del tracotante ragazzo di Rignano sull’Arno.
Anticamente, dopo aver contato i caduti sul campo di battaglia, ci si sedeva attorno ad un tavolo, si esaminavano le cause della disfatta e dopo una lucida ed attenta autocritica, ci si dimetteva. Questa, però, non è la regola di Ernesto Magorno e del suo direttivo, chiusi nel più incomunicabile dei silenzi.
Viene quasi il sospetto che essendo le responsabilità ben distribuite e l’inconcludenza politica generalizzata e diffusa, fare autocritica avrebbe potuto dar corso ad una ridda di accuse tra le varie fazioni.
Il silenzio è d’oro e la parola è d’argento. Oggi è solo tempo per tacere e lubrificare le armi in vista delle future battaglie da combattere per la sopravvivenza. Che il Pd sia ormai allo sbaraglio, dalle Alpi alle Piramidi, non tocca nessuno, nemmeno quel vecchio legionario silano dalle armi spuntate.
Figuriamoci se tocca Ernesto Magorno, l’aquila della Riviera dei Cedri, il cui credo è “credere, obbedire, non combattere e restare muto come un pesce”.