In tempi utopici la classe dirigente fu immaginata da Platone come una casta i cui membri dovevano essere sottoposti ab ovo a una dottrina d’eccezione, comprensiva di attività agoniche e dissertazioni etiche, una dottrina impartita con i mezzi congrui a un’attività che doveva sostenere il gravoso compito di dirimere le questioni politiche con saggia ed equa attitudine.
Solo così, giunto ad età conveniente, il membro veniva consegnato a una specie di ordine dalle peculiarità monastiche, in cui la convivenza con gli altri componenti lo rendeva quasi scevro di una vita privata. Ridotto così al di fuori di sé e divenuto quasi pubblico in ogni atto, da quell’altezza ministeriale, (nell’accezione positiva di servizio offerto) aveva inizio la profusione di ogni fibra del suo cervello e dei suoi muscoli a favore della sacra polis. Lungi dall’avere attrattive mondane, sull’idea del mandato politico stilata dal rampollo di Socrate pare gravasse piuttosto l’ombra ieratica del carisma, con tutte le connotazioni di obblighi e di timori divini che esso comporta.
Oggi, in tempi distopici, la classe dirigente sfugge a ogni definizione dialettica. Di divino, a parte i vergognosi privilegi, non resta loro che l’impunità, simile a quella di un Giove travestito da cigno. Il loro mandato, per dirla in gergo informatico, non è che l’interfaccia, spesso banale e intuitiva, di un sistema operativo che in profondo muove le vicende decisive, conduce ridistribuzioni su diagrammi e piani a noi incomprensibili. Non è necessario chiamare in causa “teorie complottistiche” o giù di lì, per constatare come queste forze agiscano in segreto dietro le quinte di quei magnifici apparati, di quella disutile informazione, di quei “rosatellum”, “mattarellum”, di quegli strilloni patetici e impietosi.
Queste forze tutt’altro che occulte prendono il nome di “Signoraggio bancario” e di “Economia speculatica”. Relegata nel suo sottobosco, la politica putativa è contesa e sbattuta fra la persuasione della sua effettiva impotenza e la retorica vergognosa e pregna di clichè ributtanti, ancorata tuttavia a posizioni d’antan, senza luce, senza vita, morta e decadente. È lo stigma della decadenza occidentale a stridere sulla fronte dei suoi rappresentanti. La nota asserzione che qualcuno debba malgrado tutto sporcarsi le mani non fa per loro. Non sono unicamente le loro mani a sporcarsi. Anni di maneggio e connivenza forzata alterano la loro fisionomia, rendendoli goffi negli atti, rapaci nello sguardo, o ebeti, burattini di se stessi, lontanissimi (e mi limito al loro personaggio pubblico) dall’ispirare una qualsiasi forma di misericordia. Si tratta di polvere che ritorna alla polvere.
All’opposto, sempre più algida e lontana dagli atti dell’umano consorzio, pura e limpida, l’economia si sta ritagliando una ragione d’essere per se medesima, collocandosi nella nicchia del valore assoluto. La classe politica dal canto suo è propensa a tradire quasi inconsciamente coi suoi atti una verità che deve tacere a se stessa, e ciò avviene quando pone a diuturna giustificazione del suo cattivo operato (o meglio delle sue omissioni che in politica valgono bene un cattivo operato) l’irriducibile e perpetua mancanza di fondi. Ciò vale naturalmente quando mantiene indefessa almeno la sua onestà. Missa non est, per mancanza di quattrini.
Risulta chiaro, e non è il caso di preconizzarlo con eccessive amplificazioni vocali, che nel nostro diorama storico non vige più una politicizzazione economica, ma piuttosto una più truce economizzazione politica. Qualcosa ci è sfuggito dalle mani, almeno dalle nostre profane. Non che i due termini, politica ed economia, abbiano mai vissuto rapporti pregiudizievoli, ma tale ribaltamento reca in se la più grande rivoluzione mai attuata storicamente, le cui conseguenze, tutt’altro che favorevolmente vaticinabili, raderanno al suolo le ultime macerie del nostro umanesimo.