Natale: ci si prepara al cenone. Con l’aria che tira perdono il loro fascino le domenicali polpette fritte che, invece, dovrebbero acquisire novella dignità. Avanzano, impietose, pietanze come il miele sulle carni e palline di gelato crivellate da chiodi di garofano.
Ma il pensiero va alle terga di bue, ben rosolate ed ammannite dal Pelide Achille…
È solo un apparente paradosso. Oggi, in tempi di magra, bisogna saper cucinare, e dimostrare anche di saperlo fare con perizia, longitudini creative, ecc. Niente remissioni. Le polpette fritte che sino a ieri siglavano la nostra gioia domenicale devono acquisire sul desco una non ben precisata enfasi gastronomica.
Vanno per la maggiore le formule non convenzionali: miele sulle carni (in similperversione), sfere di gelato alla vaniglia crivellati di chiodi di garofano. Butto a caso, e con tutto ciò, probabilmente, non starò spacciando che delle ovvietà. Vigono infatti modernissime trappole come la cucina molecolare che introduce al laboratorio sperimentale a alla serendipità. Edule o non edule: questo è il problema. Si giunge a produrre nuove sostanze: aria di acciughe; gel di lattuga romana (cito a memoria da un noto cartoon americano). Muta da ogni possibile direzione la concezione gastronomica, mentre quella della sazietà, ohimè, rimane sempre la stessa, e non sempre può dirsi esplicata a dovere.
E il pensiero è qui giocoforza attratto negli antichi e gloriosi campi dell’epica, quando sulle rive dello Xanto (ricordo un gustosa parodia-travestimento di uno stralcio dell’Iliade ad opera di un Carducci giovanile) si potevano gustare terga di bue ben rosolate, nientemeno ammannite dal Pelide Achille in persona. Là il vitto rifocillante ed aerofagico era anche sostanza e comunione, sebbene la sua unica consistenza fosse data dal sapore del bue e del fuoco in sè. La frugalità alimentare è consistita per secoli nel genere più che nella modalità: il ricco faceva ingestione di carne e crepava di gotta, il povero cercava nella ciotola di legumi il suo misero apporto proteico.
Fra il popolo, qui in Italia, si dovette aspettare l’Artusi perchè il cavolo o le acciughe acquisissero un’importanza che tracimava dal semplice genere, perchè, in definitiva, anche dai cibi poveri si potessero trarre degli intingoli da palato. Da allora la modalità di preparazione ebbe sempre più il sopravvento sul genere, così che oggi dire radicchio o bistecca non è più definizione di classe, quando è assodato che, ad esempio, il radicchio biologico sia molto più costoso di una bistecca di importazione. Così venuta apparentemente meno l’esigenza nutrizionale e distintiva, è necessario che l’oggetto acquisisca altre valenze.
Insomma il cibo si riduce a semplice intrattenimento, raison d’être per se stessa, sollecitazione sterile dei sensi…
Insomma il cibo (così come la sessualità ha perso da tempo il suo statuto di “continuazione del sangue”, sicurezza della posterità, con tutte le scaturigini malthusiane che ne conseguono) si riduce a semplice intrattenimento, raison d’être per se stessa, sollecitazione sterile dei sensi.
Logico che lo spettacolo e la sollecitazione implichino accortezze sottili e facciano dell’inedito e dello spropositato il loro segno ultimo, posto che la noia costituisce il suo contrappeso antagonistico. Così anche in questo settore come in quello di sopra si sviluppa una naturale ansia da prestazione, una maniacalità ai limiti del patologico, e appena camuffata dalla leggerezza dell’assunto: un piatto freddo o caldo che sia.
Casi notevoli di chef suicidi come quelli di Benoit Violier e Beniamino Nespor che trovano un celeberrimo antesignano in Francois Vatel, non hanno soltanto a monte la congenita oscurità di un veleno psichico, o l’induzione, la temperie gravida di tedio e di abbandono che è la sostanza di questo millennio: c’è di nuovo come un senso unidirezionale ed autolesionista di matrice nipponica. C’è una suppurazione del senso del dovere che si dà soltanto quando al Dio longanime si sostituisce l’impietosa Perfezione.
Il fatto è che la prestazione culinaria come forma creativa funziona esclusivamente hic et nunc, ed è quanto meno improbabile ritoccare a posteriori il proprio operato, rivisitare una espressione che si iscrive nell’immediatezza, come accade invece in formule artistiche come la scrittura ed in parte l’espressione figurativa delle belle arti: il breve spazio dell’abbuffata rappresenta l’arena famelica in cui l’artefice pone in gioco tutto se stesso. In tal caso la prestazione, come quella del teatro vivo, è vidimata dal bollo dell’irriproducibile.
Per sopperire in qualche modo all’incidente della caducità si è andato assestando negli ultimi anni un rituale di ostentazione che ha come oggetto i piatti pronti, una mania irresistibile di immortalare le proprie creazioni per spacciarle via etere. Tutto ciò che passa per la gola deve prima passare per l’occhio della collettività. Questa pratica pressochè compulsiva è stata ribattezzata dai sociologi pornfood, per via delle sue implicazioni riconducibili all’esibizionismo e alla scopofilia.
Per avere un idea generale ma pur sempre riduttiva dell’immensa portata simbolica del cibo, si possono confrontare i vari trafiletti divulgativi, spesso aforistici, che scorrono perennemente sotto i nostri occhi: Il cibo è poesia… Chi non mangia bene non dorme e non ama bene… Il cibo è più che mangiare…
I mediatori, i preti di questa polimorfa potenza, non sono che i cuochi, a cui si deve in ultima analisi il miracolo, la transustanziazione. Il cuoco oggi non si limita alla sua prosaica attribuzione di dispensatore di vivande. Egli apporta con le sue formule segrete la salute dell’anima e del corpo. Egli è l’eroe salvifico se noi siamo ciò che mangiamo, o comunque una figura paragonabile a quella di un guaritore in genere. E vedremo, tanto per ricadere nell’ovvio, che peso avrà nei trattamenti psichiatrici la terapia dei fornelli.
Sono persuaso che le sonore pacche di Canavacciuolo, non servono solamente a fare animo agli scorati, ma rimangono il distintivo di una maternità, (e la sua abbondanza corporea parla chiaro) complicata da incursioni eroico-paterne. La pagana Alma Mater, votata a dispensare cibo e, per sineddoche, vita e salute all’umanità, si reincarna sovente in questi eroi che ne perpetuano l’archetipo. E la prospettiva di uno svezzamento diviene sempre più remota.