Sarà un dato superfluo o arrabattato, ma ogni qualvolta si tratta di cultura la Calabria si muove sempre sul filo di un traliccio. Da un lato, argilloso comparto di neghittosi e irriducibili “tamarri” capripedi, il cui sbadiglio, per dirla alla Baudelaire, ingoierebbe il mondo intero; dall’altro focolaio per antonomasia di quel fenomeno migratorio, principalmente giovanile, che una statistica chirurgica e smaccatamente metonimica ha pensato bene di battezzare simpaticamente fuga dei cervelli (avrei preferito fuga degli stomaci, ma in tempi di influencer e bitcoin le accuse di basso materialismo minacciano tuttavia). E come se tutto ciò fosse da poco l’eterna funambola è ora andata a tuffarsi a piè pari dentro una scodella di zuppa inglese lordandosi da capo a sotto di appiccicume giallognolo.
Questo solo per dire che anche nella “masticazione” o meglio nella “ruminatio” della lingua di Albione abbiamo ricevuto la nostra brava nota di demerito. A consegnarla i soliti statisti. L’argomento, se ciò abbia fatto specie o meno ai consegnatari, aprirebbe un altro capitolo statistico: mi basta la certezza di essermi defilato personalmente dalla schiera di chi si è accasciato in preda al sacro orrore. Le ragioni le ho tutte alla mano.
Quella che negli anni novanta era la “lingua del domani”, (un occhiuto surplus), ed alla quale dovevano essere consegnate le chiavi delle nostre visioni prospettiche e metaprospettiche: economie e sviluppi ragionati in inglese (lingua di chi non ha nè esitazioni nè tempo da perdere), magnifiche sorti e progressive, apparati interculturali e globalizzazioni, tutte cose che già da allora trasudavano presagi sinistri, oggi che l’avvenire è ormai quasi passato come cantava Tenco, si è rivelata senz’altro un aberrante mezzo di colonizzazione idiomatica.
A tutt’oggi, mentre suona bislacca la conoscenza aprioristica di una lingua particolare come battistrada a uno sviluppo di cui si ignora la ragione e il senso, alcuni, bilingui e bifidi, propugnano instancabilmente l’imperio di un idioma scelto da loro stessi per essere mezzano di sordide manovre, e per incarnare magnificamente gli ideali della globalizzazione, ossia “il nome pudico e morbido con cui ormai la manipolazione organizzata e l’industria della coscienza ci ha abituato a qualificare il monopolio della violenza organizzata su scala capitalistica”. é quanto sostengono i pensatori come Diego Fusaro, giovane e solido detrattore dell’ “inglese operazionale dei mercati, dello spread e del nasdaq”. E più avanti, sempre nello stesso articolo, coglie il paradosso dell’odierna società globale: “Essa coarta i popoli e le culture ad adattarsi all’unico profilo omologato del consumatore, e ad assumere la dimensione della produzione e dello scambio come orizzonte unico… E nell’atto stesso con cui compie questa esiziale omologazione planetaria, costringendo i popoli e le culture a conformarsi a un unico modello, tesse senza tregua le lodi del pluralismo e del relativismo, del molteplice e del frammentario”.
Per tornare al caso nostro, si parva licet, la causa di questo “frego” ostinato potrebbe essere tracciata nella preconscia, animale rivolta ad un diktat, a uno strumento che non percepiamo nè come utile nè come necessario. La conoscenza o la propulsione ad essa non nasce che dalla necessità, sola maestra, e dalla sua applicazione in campo. La coazione al sapere, alla conoscenza, ha sempre radici inconsce. Si filosofeggi o si edifichi materialmente, il riscontro volgare o sublimato sarà sempre l’esca di un premio. In termini strettamente terreni, e non ontologici, a che grado è situata la nostra necessità del multilinguismo, signori statisti, quando in un territorio in cui la disoccupazione è inviscerata nella facoltà di giudizio le conversazioni più esotiche che intavoliamo sono quelle fatte in un caffè fuorimano?
Nelle nostre relazioni strette all’osso e nei nostri frugali maneggi di natura in gran parte domestica, (ancora: e fino a quando?) il vernacolo continua ad essere la lingua più congeniale. Confondo il vanto delle nuove generazioni bilingui (italiano-inglese) pensando che anche le vecchie erano tali (italiano-vernacolo), e il vernacolo è la lingua lenta e salubre di chi resta veramente sulle cose, imparandole a conoscere col loro nome e assaporandone il midollo. Recentemente anche l’attuale pontefice si è ritrovato suppergiù nello stesso concetto.
L’idea speciosa quanto assurda, nutrita spesso dai propri complessi esterofili, che nel “fuori” sia sempre il migliore, vada pure in esilio assieme ai suoi fautori. E poi da un po’ di tempo a questa parte fatico a lottare con la sempre più pressante idea che a un certo grado di saturazione la retrività faccia le veci di avanguardia: la mancanza di duttilità, checché ne dicano, ha anch’essa il suo punto di aristocrazia.
Per quel che ci riguarda, noi sudisti, abbiamo nutrito per secoli un sospetto legittimo e più che umano verso il male che viene dal mare, verso ciò che penetra invadendo dall’esterno, e mentre si vuole che le nazioni, l’una dietro l’altra, vadano a soccombere in quanto a sostanza identitaria, noi manteniamo intatto il nostro spirito di conservazione, quello che forse ci salverà continuando a gridare: “Mamma li Turchi”, dalla vertigine dei suoi bastioni.