(r.b.) Mentre i trombettieri di regime, assecondati da ragionieristica contabilità, menano vanto sui prodigi dello scorso governo – un milione di posti di lavoro in più nello scorso anno – un quarto della popolazione italiana ha già oltrepassato la soglia della povertà. Tanto ci dice la statistica descrittiva che si limita a raccogliere la massa di dati, ma non si fa cenno alla statistica inferenziale che invece utilizza il dato statistico e, fotografando una realtà, fa previsioni di tipo probabilistico. Nessuno mai avrebbe potuto immaginare che in nome della flessibilità e per conto degli interessi di pochi, i nostri giovani sarebbero stati mandati allo sbaraglio nel mondo del lavoro precario. Di ciò e di altro scrive, oggi, il nostro collaboratore.
di Antonello Cristiano
Tale uscita costituisce il deus ex machina di ogni dibattito sul tema occupazionale: ma la sua gratuità non deve indurci a sottovalutare i machiavelli che si celano dietro la bonarietà indifferente del costrutto. La volontà del diavolo è attuata soprattutto da chi non la conosce.
In ambito economico il “liberismo” di derivazione crociana, ha via via acquisito nel suo essere di fatto i caratteri sfrenati e dissoluti di un mercato privo di argine normativo, imploso ed autoreferenziale, sempre più inaccessibile al comune cittadino che si limita a subirne gli imprevedibili contraccolpi.
Lo stato sempre coercitivamente celere nel ricordarci il nostro dovere, annuncia pomposamente per bocca dei suoi emissari che il lavoro, per quanto costituzionalmente diritto, “non casca dal cielo”, e che il bamboccione è appunto colui che si crogiola nell’incapacità “d’inventarselo”.
Ma andiamo ad analizzare per bene l’ “assunto” (nel senso ovvio di congettura, poiché qui non si presume di trovare ricette per l’ “assunzione”, né terrena né mistica): che cosa significa oggi inventarsi un lavoro, se non divenire o imprenditori di se stessi o coltivatori indipendenti che, anziché vendere, consumano sul posto i loro prodotti, inaugurando un’economia di sussistenza?
Tralasciando quest’ultima ipotesi non certo gradita al mercato in genere, dobbiamo dare al neoliberismo il merito di tenere accesa la posta in gioco, iniettandoci gli occhi di sangue, e preservando dalla ruggine le armi del vicendevole agguato. A ben rifletterci nulla mantiene in sé la primitiva affermazione dell’io, l’ordinario concetto di conservazione, come l’economia: sebbene la contesa non avvenga più sopra la coscia del cinghiale, ma sullo sterco monetato.
Il neoliberismo invita insomma il levriero a correre giocando sulla certezza del suo amor proprio. Nessuno di fatto, in un mondo di sciacalli, sarà mai propenso ad ammettere di essere meno astuto del prossimo e di non essere capace nella bisogna di sottrarre con violenza il boccone da qualche mascella. Ma il sistema piramidalmente abietto farà sempre si che per ogni boccone nostro (nient’altro che un misero boccone) qualcuno al piano superiore ingoierà un arrosto.
Alla luce della storia, quella italiana, quattro lustri di governo improntati su questo sistema hanno accompagnato l’agglutinarsi di una precarietà di costume prima ancora che lavorativa. Il single privo di sostrato, avviticchiato ad un lavoro instabile, con l’orologio costantemente alla mano, è assurto a modello dei nostri tempi. La famiglia classicamente intesa è oggimai un lusso per pochi eletti. Già molto è contentarsi di un salario, comunque sia. Ad indice della nostra impotenza a trascendere lo stato attuale sta la consapevolezza, mai efficacemente impugnata, che l’avvenire non si costituisce nei compromessi, e che l’idea di un presente senza futuro, di un vivere alla giornata, è proprio ciò che propugnano i fautori dello sciacallaggio morbidamente detti: “neoliberisti”.
È dai tempi dell’industrializzazione più remota che il plusvalore produttivo è adoperato a detrimento dell’operaio stesso. Oggi, alla vecchia faccenda degli investimenti in macchinari che riducono la necessità della manodopera, deve aggiungersi la moda delle imprese che sbaraccano nella nazione di origine per ricostituirsi in paesi fiscalmente più golosi.
Ogni imprenditore, anche il più onesto, accarezza col pensiero un’epoca a venire in cui ai fini della produzione non sarà più indispensabile il contributo operaio. Le imprese per intenderci non sono “Fatebenefratelli”: il loro fine non è la comunione ma l’introito
Per la tal causa l’idea dell’imprenditore “che da pane”, l’idea del magnate a cui deve essere demandata l’esclusività della ripresa, è lo strumento più confacente a questa logica aberrante, sebbene smentito a più riprese. Ci si è ritratti da un po’ di tempo a questa parte in una sorta di assistenzialismo aziendale, per cui le imprese assumono e procedono solamente in virtù dei fondi erogati. Il perché non si inverta la rotta “finanziando” direttamente il consumatore, perché “finanzi” a sua volta con le sue transazioni l’impresa, come è avvenuto in miglior tempo, è facilmente comprensibile.
Tale genere di economia, così com’è strutturata, creerà sempre un margine di sommersi, constando essenzialmente di ciechi o, meglio, di occhiuti spostamenti di grossi capitali. Sarà pertanto sempre necessaria, a tutela dei “meno furbi e dei “meno intraprendenti”, l’esistenza di un welfare, di una porzione pubblica inalienabile che funga da paracadute, anche perché spesse volte la mancanza di furbizia e di intraprendenza coincide con l’onestà civile.
Il neoliberismo, ovvero la privatizzazione coatta e definitiva a cui più meno inconsapevolmente aspirano, strizza l’occhio al concetto più deteriore di giungla e di primitivismo, sebbene in livrea di servizi eccellenti e di progresso.