Nel marzo di quest’anno a Giovinazzo (BA) era a malapena scoccato il termine delle consultazioni che già il sussidio si dava per bell’e fatto, complici le fake news di qualche buontempone, ed anche la brama che anticipa l’acquolina sul pasto.
La diagnosi formulata allora, e a tutt’oggi valida è che tutto un popolo di NEET (acronimo che sta per persone nonimpegnate nello studio, né nel lavoro, né in formazione n.d.r.)e di precarizzati cronici aneli a questa soluzione da tempo ventilata, sempre rimandata per “non luogo a procedere”, riveduta, procrastinata, riproposta capziosamente in clima elettorale e riscaraventata nel semenzaio dei “forse” e dei “poi vedremo”.
Nominando ora reddito di cittadinanza, ora indennità tal dei tali questa misura di ridistribuzione monetaria, i rappresentanti di partito hanno giocato per anni a rimpiattino con la necessità di un sostegno serio ed indifferenziato per chi versa in ristrettezze finanziarie, il quale del resto (altro che lusso, o gentile concessione di perle ai porci!) non si limiterebbe che ad allineare il nostro stato alla media welfare del resto dell’Europa.
L’attuabilità della misura – fra chi è scettico e chi contrario per motivi ragionati o semplicemente perché opponga il fattore etico a un intervento che smorzando nei giovani ogni volitività alla lotta nell’affermazione lavorativa, fabbrichi agli effetti un vivaio generazionale di malve e vitelloni – emerge in maniera sempre più chiara emancipandosi dalla velleitarismo che la contraddistingueva sulle prime.
Il libro dei numericontabili, parla ad esempio per l’anno 2013 di 9 miliardi erogati come sussidio ASPI, più altri 5 di cassa integrazione ordinaria e straordinaria, e tralascio di inserire in questa sommatoria il nuovissimo REI o “reddito di inclusione”, più altri svariati ammortizzatoriminimi. Il costo totale del reddito di cittadinanza è invece stimato secondo l’abbozzo presentato dal M5S in circa 15 milioni di euro. Ciò non pare in termini monetari quel salasso di cui volevano convincerci a ogni costo, salvo non lo siano di già gli ammortizzatori vigenti.
Credo che i termini di fattibilità riguardino più che le coperture finanziarie, l’intero sistema di individuazione dei destinatari e di erogazione dei sussidi, l’immensa macchina che dovrà mettersi in moto anche ai fini della collocazione o ricollocazione lavorativa.
Quanto alla vox populi, nel circolo dei più forti e pertinaci detrattori del reddito di cittadinanza – duole dirlo – si situano proprio gli impiegati storici, i seduti da tempo immemore – e tutti “per merito”ovviamente – i quali ignari della situazione attuale seguita all’evolversi della vessazione eurocratica, e troppo ottimisti riguardo la rispondenza domanda-offerta di lavoro, tacciano i giovani d’imperizia e di neghittosità in un accesso enfatico fra il paternalismo e il livore.
Ozio o non ozio, per troppo tempo la classe lavoratrice è stata tenuta in scacco da contratti che definire “capestro” non è abuso e da alcuni ritrovati disumani, classificati sotto il nome orwelliano di lavori di somministrazione e contratti a progetto. Gli uffici di collocamento si sono limitati ad accogliere l’inizio o la cessazione di attività lavorative non da loro distribuite. Nell’abisso che chiama l’abisso dell’inoccupazione più nerasi è arrivati a reputare privilegiati i lavoratori precari che, nella stagione di inattività, potevano fruire dell’ASPI, un’autentica manna, più che per il lavoratore, per i somministratori infedeli.
Per troppo tempo, stretti dalle contingenze, abbiamo favorito il sistema al ribasso delle interinali e delle aziende razziatrici o abbiamo corteggiato l’inclusione in quelle fumose quanto circoscritte short list cui la crisi occupazionale ha fornito la dignità e l’aureola di autentiche liste di Schindler;per troppo tempo abbiamo subito il vile e spregevole aut aut dell’imprese che minacciavano delocalizzazioni sotto lo sguardo connivente dei sindacati, mentre i vecchi adagi“il lavoro nobilita l’uomo” e “chi non lavora non ha diritto di nutrirsi”sono stati adoperati per crocifiggere nonchè rinfocolare il disagio di chi non si è mai adattato a lavorare alle condizioni inumane di uno schiavista post litteram
Con l’introduzione di un sussidio universale garantito la giostra girerebbe finalmente in senso opposto, e il lavoratore potrebbe davvero vedersi restituita la sua dignità. Numerosi ed in più campi, si innescherebbero dei circoli virtuosi, il primo dei quali sarebbe guardare alla propria professione non più come a un mezzo di sussistenza poco più che alimentare che prende alla gola e aliena anima e corpo, tale quando si è stretti dalla necessità, ma come a un campo creativo di affermazione del proprio essere rispetto a se stesso;perciò che l’intervento necessario e dovuto rechi su di se il marchio o lo stigma di un partito come di un altro è indifferente purché passi infine alla votazione. Ma non scordiamoci che in ogni caso sarebbe comunque in ritardo sulla disperazione e il suicidio di parecchi nostri connazionali, meglio: fratelli italiani.