I sovranisti italiani sostengono che la volontà popolare espressa in libere elezioni è sovrana, e in quelle del 4 marzo il popolo italiano si sarebbe espresso nel senso di una maggiore autonomia dalla CEE.
La possibilità di uscita dell’Italia dall’area euro, invece, non mi sembra sia emersa con chiarezza nel dibattito elettorale tra i partiti.
Per capire bene il problema bisogna premettere che l’Italia fa parte di un organismo sovranazionale, la CEE, rappresentato da un Parlamento, guidato da una Commissione, con una politica estera comune, una politica di liberi scambi e di spostamenti liberi dei cittadini tra gli stati membri, una politica economica concordata e soprattutto una moneta comune per i più importanti tra i Paesi aderenti.
Certo un Paese può decidere con referendum, come ha fatto il Regno Unito, di uscire dalla Comunità e si assume la responsabilità delle conseguenze di tale atto.
Può, come la Grecia, minacciare l’uscita dall’euro e poi, di fronte alle possibili gravi conseguenze, accettare l’aiuto finanziario e le rigide regole di finanza dettate dalla CEE per restare nell’aurea euro.
Ma non può pretendere in maniera unilaterale di dettare le regole del gioco comune.
Se vuole mutare le regole del gioco deve trovare alleati in altri stati europei e fare una politica, in Europa, per cambiare insieme le regole.
Questi sono i fatti; i proclami elettorali lasciano il tempo che trovano. Possono servire ad accalappiare voti, ma non a risolvere i problemi.
Penso che l’origine della grave crisi istituzionale, ora conclusa, tra il Presidente della Repubblica e i rappresentanti del governo di Lega-Cinque Stelle sia consistita proprio in quest’equivoco: gli uni sostengono di aver avuto un mandato popolare dal voto del 4 marzo, il Presidente ritiene che la Costituzione gli dia il potere di non firmare la nomina al ministero dell’economia del ministro proposto dai due alleati, poiché in passato egli è stato critico nei confronti del modo in cui è gestita l’economia comunitaria e ha delineato in alcuni scritti un piano di uscita dall’euro.
E’ bastata solo questa ipotesi perché i mercati reagissero con un’impennata dello spread, cioè il tasso di interesse per l’acquisto di titoli dello Stato italiano.
Alcuni partiti dimenticano che il nostro Paese ha un debito pubblico, cioè un debito complessivo di tutti gli italiani di circa 2.300 miliardi di euro (Dati Bankitalia), il 130% del PIL, che è il valore di quanto gli italiani producono in un anno. Per coprire la differenza tra quanto si produce e si guadagna in un anno e quanto manca per coprire la spesa pubblica, lo Stato deve mettere sul mercato titoli pubblici che sono poi comprati da investitori esteri e nazionali, soprattutto le nostre banche.
Più la tenuta finanziaria di un Paese è a rischio, più gli interessi da pagare per vendere i titoli sono maggiori.
Aumentare la spesa pubblica uscendo dall’euro e stampando le nuove lire per coprire i debiti, a parte tutti i problemi giuridici e tecnici connessi, implicherebbe la totale sfiducia dei mercati ad accettare i nostri titoli pubblici: gli investitori stranieri pretenderanno di essere pagati in euro, mentre quelli italiani sarebbero pagati con una moneta deprezzata così come accadrebbe a stipendi e pensioni e a tutti gli investimenti delle famiglie nelle banche italiane. Riprenderebbe la corsa dell’inflazione con le conseguenze che conosciamo bene.
Siamo nella barca comune dell’euro, uscirne ora ci costerebbe molto più di quanto ci è costato salirci.
Se le battute dei giornali stranieri e di esponenti della Commissione Europea ci possono giustamente indignare come italiani, dobbiamo pur ammettere che, per fare la voce grossa in sede europea, bisogna mettere ordine nei nostri conti e, prima di fare proclami, comprendere le conseguenze delle parole dette e delle scelte politiche che si intendono fare.