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Il coraggio delle scelte Ritrovare lo spirito e la spinta politica dell’Italia del dopoguerra

Il crollo del Ponte Morandi di Genova ha reso consapevoli gli italiani di ciò che i tecnici e ilprogettista stesso sapevano: le opere in cemento armato subiscono nel tempo un deterioramento strutturale che può essere solo rallentato con il controllo e la manutenzione costanti. Sappiamo ora che buona parte delle grandi strutture stradali costruite negli anni sessanta e settanta, al tempo del miracolo economico, richiedono attenzione sia per l’inevitabile degrado, sia perché, quando furono progettate, il flusso di traffico previsto era di molto inferiore all’attuale per numero di autoveicoli e per peso dei nuovi grandi autocarri da trasporto.
Il nostro Paese è anche soggetto a terremoti, esondazioni di torrenti e fiumi, cementificazione selvaggia e abusiva, che hanno fatto dell’Italia il Paese delle continue emergenze e della insufficiente capacità di programmazione.

Nell’articolo del 25 agosto su Lamezia terzomillennio, Renato Borelli  ha individuato i problemi e le debolezze conseguenti alla globalizzazione dell’economia, della finanza e dei commerci. In altri articoli su questo giornale si è evidenziato come il debito pubblico, cioè quanto spende l’Italia per finanziarsi ogni anno, è superiore di molto al PIL, cioè a quanta ricchezza si produce ogni anno complessivamente.
Dopo decenni di dismissioni di imprese pubbliche a tutto vantaggio dei concessionari privati, ci siamo accorti che la favola dell’economia ultraliberista che doveva portare ricchezza a tutti si è trasformata in una realtà in cui a livello mondiale sempre più pochi si arricchiscono e sempre più cresce la povertà delle classi sociali intermedie sia all’interno dei Paesi sviluppati che negli stati dei continenti più poveri.
I conseguenti flussi migratori possono essere compresi solo in questo quadro complessivo e non saranno mai fermati senza una politica globale di riequilibrio delle ricchezze e di maggior giustizia sociale.
In Italia è necessario che si trovino risorse per appaltare urgentemente tantissimi lavori di ricostruzione e recupero delle infrastrutture degradate, per la messa in sicurezza di zone franose, di alvei di torrenti o fiumi dove si è costruito abusivamente o con il consenso facile degli enti preposti.
Occorrerebbe ritrovare lo spirito e la spinta politica degli anni del dopoguerra per riprendere a crescere e poter dare di nuovo lavoro e dignità a tanti disoccupati, tornando ad assegnare allo Stato, almeno in alcuni settori, il compito di guidare la ripresa che le grandi multinazionali non hanno interesse a intraprendere. Per anni i politici e i giornali ci hanno raccontato la favola che stavamo per uscire da un momento all’altro dalla crisi economica mondiale, ma credo che dobbiamo convincerci che la crisi  è strutturale. Cioè che il sistema così com’è non può che peggiorare e in tal caso, sia che si esca dall’euro, sia che si rimanga come la Grecia, il risultato non può che essere una progressiva crescita del debito pubblico e la svalutazione dei risparmi privati. Ma dove trovare le risorse finanziarie?
E allora perché non proviamo tutti a essere più solidali e a guardare la realtà da un punto di vista non individualistico,  tenendo conto dei recenti dati della Fabi:
“Il doppio del debito pubblico è investito in titoli, fondi, bond, polizze e risparmi di varia natura finanziaria. Gli italiani hanno messo da parte 4.406 miliardi di euro, una cifra raddoppiata dal 1998 nonostante la crisi finanziaria e le turbolenze dei mercati registrate tra il 2008 e 2011 e ancora oggi pronte a riesplodere a ogni soffio di vento sullo spread.” 
(Comunicazionedel sindacato autonomo dei bancari, la Fabi, sulla base dei dati di Bankitalia in Repubblica, Economia e finanza 11 agosto 2018).
In altre parole tutti gli italiani sono debitori nei confronti dello Stato di un debito pubblico che è la metà dei risparmi privati degli italiani stessi. Siamo tutti debitori e contemporaneamente molti italiani sono però anche possessori  del doppio del debito pubblico.
Bisognerebbe allora avere il coraggio di effettuare un prestito forzoso di una parte di tali risparmi, fatta salva una quota di salvaguardia rapportata al numero di componenti di ogni famiglia, su una percentuale del surplus.
Se si trasformasse il prestito in obbligazioni da restituire con gli interessi e progressivamente in un arco ragionevole di anni,lo Stato avrebbe la disponibilità immediata di alcune centinaia di miliardi di euro da investire per creare lavoro, infrastrutture nuove o da restaurare, ricostruzioni per eventi catastrofici, per il miglioramento energetico e del ciclo dei rifiuti, per la messa in sicurezza del territorio, per creare infrastrutture specifiche per il Sud, per l’integrazione di circa cinquecentomila irregolari presenti sul territorio, per   l’ammodernamento dell’istruzione scolastica, ecc.
Ci sarebbe un aumento degli occupati e conseguentemente uno sgravio per la spesa pensionistica, una minore pressione sul debito da finanziare e un abbassamento dello spread, una minore spesa per alluvioni e danni alle infrastrutture, la possibilità di riequilibrio tra Nord e Sud nelle condizioni di vita. Ma soprattutto una minore dipendenza del Paese dagli speculatori della finanza internazionale.
L’unica cosa che mi preoccupa è la capacità dei governi di utilizzare tali somme per il bene pubblico e con la dovuta competenza nelle scelte, ma non mi sembra che ci siano in giro altre serie proposte costruttive.