Vai al contenuto

RIPARTIAMO DALLA DOMENICA Prima che il politicamente inevitabile annienti il socialmente inaccettabile.

Una volta mi è capitato di vedere l’impiegato di un noto esercizio lametino passeggiare tranquillamente e indaffaratamente su Corso G. Nicotera, abdicando una tantum – e per chissà quale disguido metafisico – dal suo ordinario lavorio, nel cui domino lo avevo fino ad allora, e a scanso di eccezioni, sempre visto districarsi.
La cosa mi fece l’impressione di un ombrello adagiato su un tavolo operatorio, o di qualsivoglia altra magnifica trovata dadaista. Fino a quell’attimo, dicevo, non l’avevo intravisto che dietro una cassa a compiere il suo officio come un sacerdote dietro l’altare, mattina e sera e feste comandate, così che quella posa, nel mio immaginario, era divenuta la sua unica ed autentica ragione d’esistere: nessun retroterra privato, nessuna riserva di alterità, niente che non fosse quel compito e quell’ attribuzione specifica. Il suo ruolo non travalicava i limiti di una comparsa relegata alla sua breve battuta (sempre la stessa), in un canovaccio i cui primi attori, spalleggiati, dovevano essere ben altri, mentre la sua più intima persona risultava plenariamente incarnata alla sua professione, o peggio costituiva un prolungamento di quest’ultima. Il nostro amico era, con altri termini, ridotto essenzialmente a ciò che aveva più che a ciò che era realmente. Ovvio che ciò calzasse benissimo, nonchè agli avventori dell’esercizio, specialmente al suo titolare.
Pensavo si trattasse di uno di quei casi in cui il soggetto in questione poteva ben essere economicamente rimpiazzato da:

  1. a) una sagoma in compensato o in plexiglass riproponente le sue precise fattezze, allo scopo di sopperire alle sue lunghissime assenze nel lato familiare;
  2. b) un automa a carica il cui banalissimo algoritmo avrebbe assolto alla previsione sistematica dei suoi scarni, sobri e reiterati movimenti in negozio.

Tutto qui? Che ne era dunque dell’anima che stride forsennata e che tempesta alle porte sconosciute? Dell’anima mistica e viva che rinomina le cose, che demolisce i necrofili apparati del pensiero unico, che traccia le translucide mappe dell’avvenire, che mina e disinnesca dall’interno, anche infrascata in un delirio ordinato di materia e di numeri ricorsivi?
Certo anche lui doveva possederla, ma proprio allora che aveva la facoltà di spiegarla in tutto il suo libero fulgore, stava quasi inebetito e disperso in una vastità agorafobica, si vedeva come ignorava quale utilizzo potesse farne, era chiaro che avere un’anima, per lui, in quel dato momento, costituiva un insostenibile gravame, e, scommetto, all’occorrenza sarebbe preferibilmente scappato a rifugiarsi nel suo caro negozio, ad inanellare qualche ora di straordinario, rigorosamente non retribuita. Il fenomeno di Schopenhauer, il semicieco principio di causa lo riassorbiva da ogni direzione. La sua era la felicità di chi ama le proprie catene, e nessuno, tantomeno io, avrebbe potuto biasimarlo.
A queste identità anonime, ad estremi umani talora peggiori conduce il neoliberismo più sfrenato, alla pratica ossessiva e fine a se stessa in nome di una crescita ingiustamente parziale, ipotecando pezzo a pezzo la nostra parte viva in un cattivo infinito, senza storia nè risvolto. Tutti i punti acquisiti in termini di diritti lavorativi scivolano via gradatamente fagocitati da un sistema per cui il tempo non è che moneta, un sistema che investe tutto a tal fine e per cui anche i nostri capelli saranno prima o poi contati per essere inseriti nell’ordine produttivo.
Ma la più grande vittoria del pensiero unico, il suo autentico capolavoro persuasivo sta nel convincimento diffuso che questa lenta agonia sia la panglossia, il migliore dei mondi possibili. Le armi minatorie dello spread e della ritorsione finanziaria dispongono di tutto il potere necessario per far sembrare “politicamente inevitabile ciò che è socialmente inaccettabile”: donde la cessione lenta e inesorabile di ogni conquista democratica e sindacale. È curioso come ogni mozione spacciata per evolutiva, sottenda in realtà un’involuzione nel senso di cui sopra, e come ogni conato rivoluzionario che procede dall’alto si allinei nella formula della precarizzazione e del just in time, le quali aderiscono sempre alla vita in genere, nella stessa maniera in cui aderiscono uno dei suoi aspetti specifici: il lavoro.
Pochi sono quelli che riescono a ripensare il sistema dal di fuori, e numericamente irrisori coloro che avendo compreso avrebbero la forza di contrastarlo. Patenti di pazzo e congiure di silenzio sono pronte a tacitarlo. Gli insulsi cerchiobottisti che urlano alla sbarra, e si scompongono di fronte ad un reddito minimo garantito, “che rimpolperebbe i glutei di chi ha notevoli inclinazioni al decubito” sono gli stessi che accolgono supini un ordine finanziario speculativo decisamente svincolato da ogni forma di produttività etico-lavorativa, che prospera sulla Las Vegas dei derivati, e va operando una forma di redistribuzione monetaria fra le più inique della storia.
Carissimi, voglio dire con piglio ieratico, a questo punto dobbiamo ripartire dalla Domenica, quel giorno umilmente nominato da un lirismo cattolico: Pasqua della settimana, prima che la settimana fosse tutta un’unica monotona filza di feriali. Dobbiamo ripartire da un vuoto, da una interruzione, da una cesura, da un occhio del ciclone, da un giorno sacro all’ozio e inaccessibile ai mercanti, in cui tutto è fermo perchè deve essere fermo, affinchè sia specchio all’eterna idea del mondo. Un giorno in cui si possono incontrare contemporaneamente tutti gli amici, poichè tutti gli amici sono a riposo per festivo e non per turnazione; un giorno in cui si può andare indistintamente a funghi, leggere filosofia, (o pretestuosamente sulla veranda della propria casa il Libro per la sera della Domenica di Sergio Corazzini) andare a messa, cogliere nell’orto (che so?) la ruta graveolens che è così buona per aromatizzate la grappa; un giorno in cui per giunta si può anche avere il privilegio di annoiarsi.