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Romano De Grazia Prima Padre poi grande magistrato

“Romano come stai”? Conto le ore, chiamami domani.E’ l’ultima telefonata intercorsa tra noi. Poi il nulla.
Solca le vie del cielo il caro Romano De Grazia, mentre io mi struggo davanti alla tastiera cercando di trattenere le lacrime. Si dice che il pianto sia liberatorio, ma in cuor mio l’ho sempre avversato, forse perché da piccolo ho pianto tanto e da grande un po’ meno, ma solo per atteggiamento autoimpostomi, non perché la vita mi abbia regalato sempre rose e fiori.
Incontrai Romano nel 1962, appena conseguita la maturità classica. Fu lui,  già insegnante delle scuole dell’obbligo e “apprendista” magistrato, ad  introdurmi nel mondo della carta stampata.
Da quel momento in poi le nostre vite parallele, anche quando ci dividevano centinaia di km di distanza, non si sono mai separate: lui magistrato ad alti livelli, io dirigente di azienda nel terziario avanzato e scrittore freelance a tempo perso.
Ci han tenuti legati valori comuni, come onestà, rettitudine, correttezza, coraggio, denuncia ed opposizione al malaffare, alla corruzione, al triste connubio politica-mafia che è la piaga purulenta della società in cui viviamo.
Ci siamo ritrovati dopo circa mezzo secolo. Ci siamo guardati negli occhi e senza dirci nulla abbiamo ripreso, lui da magistrato ed io nel mio ruolo di “pennaiolo” a tempo perso, l’antica strada: la lotta al malaffare, agli inciuci che solo la politica sa metter su grazie alla connivenza dei tanti.
E giù per contrastarli tutti, politici, annessi, connessi e derivati. San Luca, Platì, Molochio son diventati campi di battaglia sui quali non abbiamo vinto, ma abbiamo dimostrato che la ‘ndrangheta – meglio, la mafia in genere – si combatte in trincea e non in salotto o nei corridoi dai passi felpati.
L’Italia vera, dalle Alpi a Mazara del Vallo, gli ha tributato gloria ed osanna; l’ha invece osteggiato il “chiaroscuro” dell’intera classe politica italiana, vocata, per sopravvivenza, a stravolgere la Sua legge Lazzati per renderla inefficace, introducendo il 416 bis e ter che niente  sono e niente saranno in  termini di legalità.
Romano caro, grande padre, grande uomo, grande magistrato – per me fratello maggiore – tal sei stato e tal sarai nel ricordo di tutti.
Se ti sarà concesso, prosegui la tua battaglia per la legalità anche dalla nuova dimensione in cui tu ora continui a vivere. Noi, quaggiù, per quanto ci sarà possibile, continueremo a tribolare in tuo nome.

Addio.
Renato Borelli