La diffusione mondiale dell’epidemia di coronavirus, con l’alto numero di contagiati e di morti, ci costringe a rimanere chiusi in casa, a cambiare abitudini e modi di lavorare, a riflettere su valori e comportamenti come non eravamo abituati a fare da tempo.
Alcuni Stati, come USA e Inghilterra hanno minimizzato il pericolo finché hanno potuto, temendo di entrare in recessione.
La Cina, che pure ha dovuto isolare una intera provincia con una popolazione equivalente all’Italia, ha mostrato verso di noi una solidarietà più concreta di tanti Paesi europei.
Secondo me, la domanda che dovremmo porci è la seguente: quanto accade è limitato all’aspetto sanitario o mette in discussione l’economia globalizzata e, in ultima analisi, lo sviluppo sociale e culturale della società occidentale?
E’ evidente che la facilità degli spostamenti di merci e persone a livello globale favorisce i contagi da un Paese all’altro.
E’ anche drammaticamente evidente che la rapidità di diffusione dell’epidemia mette in difficoltà molti sistemi sanitari, e che la quarantena obbligatoria di molti Paesi impedisce la produzione normale dei beni e l’ esportazione delle merci, anche perché la richiesta di beni, in queste condizioni, è drammaticamente crollata.
Scopriamo ora che la sanità nazionale, anche nelle regioni privilegiate del Nord, è in difficoltà.
Constatiamo che il crollo delle borse mondiali riflette la realtà speculativa di un sistema finanziario globale che sfugge al controllo dei singoli Stati, come hanno dimostrato le precedenti crisi del 2008 e del 2011.
Non è sempre stato così!
La mia generazione ha visto il lento degrado di quello stato sociale che aveva fatto crescere l’Italia e l’Europa dopo la seconda guerra mondiale, riconoscendo a cittadini e lavoratori il diritto alla salute, alla previdenza, ad un giusto salario, all’istruzione. La gran parte degli Stati occidentali considerava importante nel dopoguerra offrire a tutti i cittadini le medesime opportunità indipendentemente dal ceto sociale di appartenenza, come è anche scritto nella nostra Costituzione. Poi negli anni ottanta si verificarono contemporaneamente alcuni eventi che cambiarono questa impostazione:
• alle presidenziali del 1980 negli USA Ronald Reagan sconfisse il presidente in carica, il democratico Jimmy Carter, e fu rieletto nelle successive elezioni del 1984. Reagan spostò a destra la politica interna e quella estera degli USA.
• contemporaneamente, nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Margaret Thatcher, leader dei conservatori, governò dal 1979 al 1990.
Ambedue favorirono un sistema economico che puntò a:
• riduzione della crescita del debito pubblico
• riduzione delle tasse sul lavoro e sui redditi di capitale
• riduzione della regolamentazione dell’attività economica
• controllo dell’offerta monetaria e riduzione dell’inflazione.
Sia la Thatcher sia Reagan trovarono un sostegno alle proprie tesi nella teoria economica ultra liberista dell’economista Premio Nobel Milton Friedman, che fu ritenuta a quel tempo la soluzione ai problemi di inflazione e crescita del debito pubblico in molti Paesi.
In sintesi la teoria di Friedman sostiene che un libero mercato senza regole sia più vantaggioso per lo sviluppo dell’economia di un mercato controllato dallo Stato.
Ma fu solo nel 1989 che il crollo dei regimi comunisti decretò il successo globale dell’economia liberista che si diffuse in altre parti del mondo, compresa la Cina.
La fine del pericolo comunista in Italia consentì le inchieste giudiziarie di “Mani Pulite”, che scardinarono il sistema dei partiti tradizionali, e in particolare della Democrazia Cristiana; partiti che erano certo corrotti ma avevano mantenuto in vita lo Stato sociale e l’autorità dello Stato nazionale.
Ciò che avvenne dopo sancì di fatto la fine delle ideologie dei partiti, l’affermarsi nel nord dell’Italia del partito secessionista della Lega di Umberto Bossi, l’avvento al potere della imprenditoria liberista con Silvio Berlusconi, al governo per quattro volte con interruzioni dal maggio 1994 al novembre 2011. L’economia e non i valori ideali governavano ormai l’Italia.
Anche negli USA i due Presidenti Bush e l’attuale Presidente Donald Trump sono l’incarnazione del potere economico-finanziario che, per prosperare, deve smantellare lo stato sociale, creare imprese multinazionali, speculare in borsa sulle paure e sulle crisi come è avvenuto per l’Argentina, per la Grecia e per l’Italia.
In tale contesto, la dimostrazione dell’insignificanza della volontà popolare espressa nelle elezioni nazionali è diventata evidente quando i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico italiano crebbero in maniera preoccupante al tempo dell’ultimo governo Berlusconi, e la Commissione Europea costrinse l’Italia a nominare un nuovo governo più aderente alle direttive di Bruxelles. Il governo d’emergenza dell’economista Monti (dal 16 novembre 2011 al 27 aprile 2013), quello successivo di Enrico Letta (in carica dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014), e quello di Matteo Renzi (dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016), e i due di Giuseppe Conte sono stati governi di coalizione che, col sostegno dei Presidenti della Repubblica, hanno cercato di conciliare la crisi della politica italiana con le indicazioni dell’economia e della finanza mondiale espressi dalla Commissione Europea e dalla BCE a Bruxelles.
Il coronavirus, pur nella sua drammaticità mondiale, ha evidenziato la fine della narrazione ottimistica di un’economia che in trenta anni ha fatto crescere, come rivelano tutti i rapporti internazionali, le disuguaglianze sociali tra ricchissimi, sempre più pochi, e poverissimi sempre più numerosi in tutto il mondo.
Ci siamo ormai resi conto, come ho già dimostrato nel mio precedente articolo, dell’aumento della disuguaglianza tra Nord e Sud dell’Italia e delle conseguenze dei tagli alla sanità pubblica a favore di quella privata, anche al Nord.
L’emergenza coronavirus ha dimostrato che privare l’industria nazionale di capacità produttive interne a favore della delocalizzazione e globalizzazione, in casi di emergenza come l’attuale, è autolesionismo.
Forse anche i partiti di sinistra italiani, che hanno sostanzialmente inseguito la politica liberista della destra, accogliendone la teoria nella sostanza e combattendo Berlusconi come persona e personaggio politico, si rendono oggi conto che è necessario cambiare rotta.
E’ la posizione dell’attuale segretario PD Nicola Zingaretti, che invita i leader della sinistra europea alla “ricostruzione di un welfare aperto a tutti, di un nuovo modello di sviluppo, in cui la difesa delle fasce sociali più deboli, la valorizzazione del lavoro e la ricerca la solidarietà tra gli Stati, diventino alla luce di questa emergenza obiettivi di stringente attualità.”
O ci avviamo a realizzare una Comunità Europea su questi principi, o avranno sempre più spazio i nazionalismi egoistici che renderanno i piccoli Stati europei sempre più schiavi delle multinazionali e della finanza globale.