Sono quasi due mesi che alcuni miliardi di persone vivono in condizioni che nessuno ha mai immaginato: distanziamento sociale, quarantena generalizzata e uso di mascherine, limiti alla produzione e al commercio di beni, impedimento agli spostamenti se non per necessità.
La pandemia ha costretto gran parte dell’umanità a mettere in discussione modelli di vita individuale e sociale che sembravano indiscutibili.
Possiamo dibattere su chi abbia la responsabilità della diffusione del virus, ma è chiaro alle coscienze, prima che alla ragione, che c’è una responsabilità comune dei Paesi più ricchi: la convinzione di una crescita costante e indefinita della produttività, che ha avuto conseguenze imprevedibili sull’ambiente in cui viviamo e ha prodotto ingiustizie sociali in tutto il mondo.
La nostra Casa Comune è stata depredata, inquinata in modo insopportabile da un consumismo sfrenato, che rende obsoleto ciò che da poco abbiamo acquistato; il manto forestale è stato colpevolmente devastato; i terreni, le acque e l’atmosfera sono stati inquinati, con conseguenze gravissime sulla vita di piante e animali e sull’uomo stesso.
Quasi cento anni fa il filosofo tedesco M. Heidegger già si poneva domande sulla condizione dell’uomo nell’età della tecnologia, sulla responsabilità di ognuno nel prendersi cura degli altri e delle cose, sentendosi parte e non padroni del mondo.
La psicanalisi, con Freud prima e poi con Jung, ha ricercato nel profondo della psiche umana le cause del disagio mentale, del senso di colpa che ci opprime, gli orientamenti inconsci della psiche individuale e dei comportamenti di massa che hanno prodotto regimi politici caratterizzati da comportamenti irrazionali e psicotici, fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, ai campi di sterminio degli ebrei, al terrore di una possibile guerra nucleare.
Sulla strada degli archetipi tracciata da Jung, studiosi contemporanei di filosofia, antropologia, storia delle religioni, psicanalisti hanno cercato nei miti di vari popoli, soprattutto occidentali, le motivazioni di credenze e comportamenti di antichi e moderni. Non c’è socialità e Stato senza miti fondanti che costituiscono il collante di qualsiasi gruppo sociale. Così è avvenuto per le culture che sono all’origine dei nostri modelli di vita occidentale: quella greca testimoniata da Omero ed Esiodo (VIII sec. a.C.); quella romana con Lucrezio, Virgilio, Livio, Tacito; quella ebraica con l’Antico Testamento, quella giudaico-cristiana con il Nuovo Testamento.
Platone (V-IV sec. a.C.) racconta a modo suo l’origine della colpa con l’antico mito di Prometeo già presente in Esiodo (nel greco antico aitìa ha il doppio significato di causa e di colpa):
“C’era un tempo in cui esistevano gli dei, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando poi anche per queste venne il tempo destinato per la loro creazione, furono gli dei a foggiarle, nell’interno della terra, mescolando terra e fuoco e quelle sostanze che si fondono con fuoco e terra. E quando era destino che dovessero portarle alla luce, assegnarono a Prometeo e ad Epimeteo l’incarico di fornire e di distribuire facoltà a ciascuna razza come si conviene. Epimeteo chiese al fratello di poter procedere lui alla distribuzione ma, sprovveduto come dice il suo nome, si rese conto di non aver più facoltà da assegnare quando venne il turno dell’uomo. Prometeo, allora, trovandosi in difficoltà circa il mezzo di conservazione che potesse trovare per l’uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme al fuoco, perché senza il fuoco era impossibile acquisirla o utilizzarla, e così ne fa dono all’uomo… Ma in seguito, come si racconta, Prometeo, per colpa di Epimeteo, venne punito per quel furto.” (Platone, Protagora)
Eschilo nella tragedia Prometeo incatenato (V sec. a.C.), apre la scena con una grande rupe ai confini del mondo alla quale è incatenato Prometeo, punito da Zeus perché aveva donato agli uomini il fuoco, che prima era un dono degli dei, per renderli padroni della tecnica e per costruire gli strumenti necessari a difendersi dalla Natura.
Anche nell’altra grande tradizione del mondo occidentale, la tradizione ebraica, Adamo ed Eva disubbidiscono al comando di Dio di non mangiare i frutti dell’albero del bene e del male, e perdono il Paradiso terrestre. Acquisiscono però la conoscenza, il possesso della Terra e il potere di dare i nomi alle cose: il lògos e il linguaggio.
In fin dei conti i miti presenti nelle varie civiltà raccontano in maniera diversa la specificità della condizione umana rispetto a tutti gli altri esseri viventi.
Più volte nel corso della storia la punizione della disubbidienza dell’uomo, la sua tracotanza titanica e prometeica, hanno trovato rappresentazione nella letteratura e nell’arte: l’Ulisse dantesco, il Faust di Goethe, Il disagio della civiltà di S. Freud, molti scritti di Severino, Galimberti, J. Hillman.
Ma a me piace ricordare Cesare Pavese dei Dialoghi con Leucò: una riflessione sulla condizione dell’uomo e il suo rapporto con la natura, sul suo destino ineluttabile di dolore e morte; la punizione per chi si è macchiato di ùbris, come dicevano i greci, la tracotanza di chi si sente padrone dell’universo, dimenticando le leggi che governano il mondo e quindi anche l’Uomo. L’opera inizia col racconto La nube: Issione mitico re tessalico dei Lapiti ama Nefele, la Nube che ha l’aspetto di Era, moglie di Zeus. La sua audacia viene punita da Zeus con la ruota nel Tartaro.
Il tempo dei titani, della violenza e della confusione è finito, spiega Nefele; c’è una legge, cui tutti devono obbedire. E a Issione che, incredulo, chiede cosa è mutato, se tutto intorno appare identico a prima, Nefele risponde che non è mutato né il sole né l’acqua: “La sorte dell’uomo è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini…Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga…Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi – tutto a loro contenta o dispiace .”
All’era di Cronos e dei Titani è subentrato il Cosmo degli dei olimpici con leggi che governano il mondo. Leggi che la ragione scopre come idee immutabili e divine in Platone e nella filosofia cristiana, o leggi che l’uomo può scoprire autonomamente con le idee chiare e distinte di Cartesio o le categorie dell’intelletto kantiane. E’ il mondo della modernità, della volontà di potenza, del trionfo della scienza e della tecnologia. Gli antichi greci direbbero ùbris, da punire con la rupe e la ruota, secondo che ognuno, a modo suo, si merita.