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EVVIVA, FESTEGGIAMO MEZZO SECOLO DI REGIONALISMO!
Intoniamo inni di gloria per la creazione di un federalismo malinteso in teoria ed antistorico nei fatti. Gioiamo per le venti repubblichine allora create non per meglio modulare lo Stato bensì per gretto calcolo politico spartitorio tra la ex Dc ed il Pci. Oggi, altro che compleanno, paghiamo gli errori commessi.

La legge nr. 281 del 16 maggio ’70, quella con cui si è dato avvio al processo di decentramento amministrativo in Italia, ha avuto un iter molto travagliato, addirittura iniziato nel 1860.
Non sto qui a farne la storia, anzi vado subito alla conclusione. La devoluzione si sarebbe dovuta concretizzare nelle seguenti materie: assistenza ed organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, definizione dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione, polizia amministrativa regionale e locale, ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Il tutto sotto il controllo contabile delle sezioni regionali della Corte dei Conti che ogni sei mesi sottopongono o, dovrebbero sottoporre, a verifica il rendiconto della Regione e delle Asl locali, in sede di controllo di legittimità e regolarità sui bilanci preventivi e consuntivi.
Il suddetto organo di controllo dovrebbe quindi accertare la salvaguardia degli equilibri di bilancio, il rispetto del patto di stabilità interno, la sostenibilità dell’indebitamento e l’assenza di irregolarità suscettibili di pregiudicare la sana gestione finanziaria degli enti.
Ciò premesso quest’anno la Repubblica avrebbe dovuto celebrare il cinquantenario della fondazione delle regioni ad autonomia normale (1970), di quelle ad autonomia speciale istituite nel 1948 e del Friuli- Venezia Giulia, nel 1963.
E’ giunto, provvidenziale (!) Covid 19 che ha distratto gli italiani dal trarre le conclusioni sulla bontà di quella riforma regionalistica che avrebbe dovuto spalmare su tutto il territorio efficienza, celerità, buona politica e l’eliminazione, quanto meno il ridimensionamento, della burocrazia dello Stato centrale.
Invero in questo primo cinquantennio è avvenuto di tutto: addirittura lo Stato regionale, così come voluto dai padri fondatori, è stato cancellato da ogni intenzione e disegno politico dando la stura, nel 2001, ad un federalismo ossessivo per cui il decentramento, ipotizzato nella Costituzione per avvicinare lo Stato ai cittadini, è divenuto, grazie ai sostenitori del “regionalismo differenziato”, un mero appannaggio che ha legittimato l’esistenza di cittadini di serie A e di serie B e di due Italiette.
Ma, cari lettori, credete ancora che nel 1970 il regionalismo ebbe la sua ragion d’essere per le ciance su menzionate? La verità è quella che emerge dalle memorie di Francesco Cossiga che sostenne sia stato motivato dall’impossibilità di contenere la sinistra parlamentare fuori dalle sfere del potere. Fu, quindi Mariano Rumor, alla ricerca di un nuovo equilibrio politico tra democristiani e comunisti, che ebbe l’idea di sbloccare l’istituzione delle regioni, consacrando la divisione del territorio tra due gruppi, uno  Piemonte, Lombardia, Veneto e  l’altro Toscana, Emilia Romagna ed Umbria.
Ed è stato un bell’andare tra regionalismo ordinario, rinforzato, in attesa di quello differenziato, che lascia presagire un bello ancora da venire.
Beh, non è certo un bel compleanno per il sistema regionale italiano se dopo cinquant’anni ciò, anziché far levare al cielo gli osanna, ispira mesti de profundis.
Tanto per citarne qualcuno, le strutture ministeriali sono rimaste immutate, duplicate sulle regioni ed affiancate a quelle dei comuni e delle province; le inefficienze hanno superato ogni aspettativa, la corruzione ha raggiunto livelli mai registrati ed i costi dei venti consigli regionali (più di un miliardo di euro per la gestione) e quelli delle aziende partecipate, delle agenzie di promozione, degli uffici di rappresentanza, e poi, poi  pool di consulenti a go – go, hanno prodotto l’aumento del debito pubblico, vale a dire l’esatto contrario di quanto sarebbe dovuto avvenire:  venti repubblichine per buona parte in mano a governatori che non governano e che, all’improvviso, quale metamorfosi, illuminati da divina luce, sono diventati inconcludenti menti pensanti.
E gli insuccessi sono spalmati su tutto il territorio, più marcatamente nel sud dove l’incultura democratica ha portato la classe dirigente locale a considerare le regioni nuovi centri di potere ed essi stessi, demiurghi meritevoli di lauti stipendi, privilegi, appannaggi.
Certo, cari calabresi, a stare ad ascoltare l’on. Tallini, presidente del consiglio regionale, “le regioni sono un soggetto istituzionale imprescindibile che ha valenza europea. L’assetto che le riguarda può anche essere oggetto di riflessione, ma come afferma il Presidente Mattarella, l’autonomia delle Regioni è fondamento della democrazia…” omissis perché poi il frasario è quello tipico di uno dei suoi aedi assunti prima di andare a nuove elezioni.
Forse ricordo male, ma non è avvenuto sotto la sua presidenza che il consiglio regionale calabrese in una delle prime sedute ha reintrodotto quella brutta vicenda dei vitalizi già cancellati
Ricordate l’indifferenza e l’arroganza del parlamentino calabrese a fronte dello stupore di tutta la nazione, e l’annullamento di quanto legiferato dopo appena una settimana?
E non è di qualche mese fa che Domenico Tallini – che ha lo sguardo sempre proteso a salvaguardare il suo futuro politico –  ha assunto anche i “portaborse” del suo portavoce.
Mi spiego meglio: con legge regionale (nr. 150 del 2000) fu statuito che l’organo vertice della pubblica amministrazione può essere coadiuvato da un portavoce, anche esterno all’amministrazione, per mantenere rapporti con gli organi di informazione.
Legge confezionata su misura per assumere l’amico, o l’amico degli amici del clan. Per la cronaca il portavoce del Presidente del Consiglio regionale – stipendio pari ad un dirigente regionale 8.547 euro lordi più un rimborso forfettario di 1.291 euro – ha però tanto di quel lavoro da svolgere che mai notte non vien dicono in altra parte della penisola.
Pertanto il portavoce ha bisogno di due unità a supporto che possono definirsi ausiliari o portaborse del portavoce, con uno stipendio pari a 2.284,38 euro.
Lo scherzetto è un dolcetto del costo di 173.000 euro lordi anno, che se aggiunti ai costi degli uffici stampa del Consiglio regionale e di quelli della giunta regionale ammontano ad una bella cifretta.
A parte il fatto che una regione come la Calabria non può spendere tutti questi soldoni per alimentare appetiti famelici e clientelari, trovo disdicevole il fatto che io calabrese debba smembrarmi per finanziare le campagne elettorali dei signori parlamentari aspiranti e non.
Beh, ho voglia di voltare pagina, di levare alto il calice e brindare ai cinquant’anni di regionalismo, a mezzo secolo di ciarlatani e di incapaci politicanti, alla corruzione dilagante, all’incertezza normativa in cui alligna il malaffare, alla lievitazione del debito pubblico, ai contrasti Stato – Regioni ed infine al crescente divario tra Nord e Sud.
Anche perché per le diverse condizioni sociali ed economiche mi fa girare gli zebedei  il pensiero che la mia aspettativa di vita sia sensibilmente più bassa di un residente nel Trentino.