In questi giorni in cui si è celebrato nella città di Livorno, e più nella coscienza catacombale degli ultimi sopravvissuti, il centenario del glorioso PCI (dico proprio glorioso, pur consapevole di tutte le sue late pecche e delle sue paranoie progressiste) in questi giorni di riposata ricorrenza, così favorevoli al bilancio, è ben giusto trarre le somme e interrogarsi su che cosa rimanga del fronte politico che faceva capo alla sinistra, e della magnifica strada di mattoni gialli che era la via italiana al socialismo.
Chi sono oggi i beniamini che ci rappresentano? Chi ci protegge dalla deriva privatista? Chi fa da contraltare all’immenso Moloch del neoliberismo, l’unico partito che, pur senza una ridicola sigla ufficiale, smisuratamente progredisce? La risposta che a freddo o a caldo scatta sulle labbra è sempre la medesima: nessuno.
Eppure nei primi anni si leggevano e discutevano volumi, ci si intendeva almeno un poco o si dibatteva fermandoci tuttavia su dei punti essenziali; si conoscevano infatti le magagne del Potere su ogni possibile latitudine, (non c’è proprio nulla che non sia stato esaurito riguardo alle sue subdole movenze) se ne ripeteva a menadito il decalogo: Chomsky, Foucault, Marcuse, Horkheimer, si masticavano direttamente o indirettamente.
Non erano certo i tempi di Bengodi e del suo paese, ma almeno certe trappole grossolane scattavano a vuoto facendo cilecca come un petardo che abbia preso troppa umidità. Non era per nulla facile buggerare una classe operaia che faceva affidamento su una middle classe forse un po’ troppo borghese ma in compenso attenta ed istruita e, soprattutto, meno incline al compromesso storico o puramente individuale.
Ma estendendoci alla politica in generale ed alla sua giusta endiade, che resta infine del suo complesso apparato di forze e della sua naturale disposizione ad aggiustare il tiro della storia? Nulla di nulla…
Nella fattispecie in Italia, con una legge elettorale mai presa seriamente in pugno, unicamente capace di varare a largo dei governi della consistenza di un guscio d’uovo fra i marosi, e con la graduale riduzione del partito politico alla stregua di un qualsiasi brand commerciale (si intercambiano, sentono il termometro, e alla fin fine non c’è più nessuno che abbia una effettiva prevalenza: anche per questi “prodotti” vige ormai la legge economica del just in time), c’è ormai poco da attendersi dalla politica elettorale, così che la progressione storica è stata ormai da tempo cooptata nelle strutture finanziarie ademocratite.
Già un falsamente moderato come Enrico Letta, un’acqua cheta da competizione, che dietro la sua parvenza di pacato e buon burocrate ridonda di fermenti ideologici, può sentenziare a Propaganda Live che “è veramente finito il tempo in cui si andava a Scuola o all’università e poi dopo si lavorava.” E può buttarla così come una qualsiasi quisquilia che non lo riguardi.
Sommersi nella straboccante diarrea logorroica del politichese abbiamo smesso ormai di porre mente alle ciniche bestialità che baluginano tratto tratto nel linguaggio del potere. Qualcosa di inaudito e di inudibile è corso infatti fra la mano e la pietra scagliata, qualcosa di abissale, lo stravolgimento del principio di consequenzialità causa-effetto: una mostruosità assoluta che potrebbe tradursi con un altrettanto lapidario: è veramente finito il tempo in cui si può girare la margherita del rubinetto e continuare a pretendere l’uscita del getto d’acqua.”. Roba da ultimo uomo nietschiano.
Ma ciò che veramente fa paura è la navigata compostezza con cui si maneggia questo tritolo.
Da qui si comprende che all’occorrenza riuscirebbe anche inutile rievocare gli spiriti eversori di uno stroncatore professionale come Giovanni Papini: Chiudiamo le scuole! Le scuole sono già chiuse e sepolte da anni e il poco che ne sopravvive deve essere smantellato a colpi di DID e di DAD, come in un gioco perverso.
“Adesso per tutta la nostra vita dobbiamo adattarci, cambiare, essere pronti a un cambiamento e il sistema deve aiutare tutto questo”. Altre parole dal vangelo secondo Letta, estrapolate dalla medesima intervista. Per quel che mi riguarda ho imparato a disprezzare la parola resilienza, per tutto il liquame retorico ed antiumanistico che oggi trasuda.
Intanto a Davos (mentre il cabaret nostrano va gradatamente assumemdo tonalità circensi) quelli che sono i potentati ultraliberisti si riuniscono per puntellare “il great reset” che agli effetti sarà un revival nefasto dell’antico giubileo ebraico, in apparenza il condono di ogni debito pubblico, che all’apparenza raderà tutto in una vaga luce di redenzione, mentre servirà ad impiantare un inedito dispositivo finanziario il quale sarà per la vecchia economia globale ciò che a un dipresso è il transumanesimo rispetto all’umanesimo. Ignoro altamente quali capi ameni saranno investiti dalla piena di queste magnifiche sorti, ma scommetto già da ora che, al solito, il popolo ne sarà risparmiato. Il popolo, questo vecchio bovino pasciuto a panem et circensem, umiliato e circuito dai finti fasti di un teatrino di ombre cinesi. E forse aveva ragione mark Fisher quando asseriva che è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo, in qualunque nuova metamorfosi si ripresenti: semiocapitalismo o gig economy.