Seconda parte
La disputa con Cosenza e Mancini sull’ateneo si concluse nel 1971. Da quei fatti abbiamo avuto modo di imparare qualcosa? Noi giovani della Fgci andavamo a fare riunioni o volantinaggio sulla base dello slogan trasmessoci dal Pci: «L’università subito al posto giusto». Alla domanda (scusa, ma qual è il posto giusto?) che prima noi giovani avevamo posto ai compagni più grandi (nel mio caso il referente era Gianni Riga) e che poi gli interlocutori ponevano a noi, la risposta era la seguente: evitiamo il campanilismo.
La mediazione con cui si pose termine alla rivolta reggina, già declinante anche per la stanchezza diffusa nella popolazione, fu raggiunta il 16 febbraio 1971, quando il Consiglio regionale approvò l’ordine del giorno che recepiva una proposta del presidente del Consiglio, il democristiano Emilio Colombo: Catanzaro ricevette la sede della Giunta e il titolo di capoluogo mentre a Reggio fu destinata la sede dell’Assemblea; fu confermata l’indicazione di Cosenza a sede universitaria e l’assegnazione di stabilimenti industriali, in particolare il V centro siderurgico, alla provincia reggina. La contesa per il capoluogo tra Reggio e Catanzaro, d’altronde, era inscindibile da un’ampia controversia di natura territoriale sulle opportunità di sviluppo offerte dal governo, che risulta presente in Calabria con più marcate profondità temporale e articolazione spaziale.
Fin qui i fatti calabresi che fecero da sfondo alla disputa sull’ateneo conclusasi nel 1971. Da essi abbiamo avuto modo di imparare qualcosa? Noi giovani della Fgci andavamo a fare riunioni o volantinaggio sulla base dello slogan trasmessoci dal Pci: «L’università subito al posto giusto».
Alla domanda (scusa, ma qual è il posto giusto?) che prima noi giovani avevamo posto ai compagni più grandi (nel mio caso il referente era Gianni Riga) e che poi gli interlocutori ponevano a noi, la risposta era la seguente:
«Il Pci non intende contribuire al campanilismo e dunque ritiene che a livello centrale le forze politiche debbano trovare una mediazione nell’interesse della popolazione calabrese allo scopo di realizzare il più presto possibile il sogno dell’università calabrese».
Ponzio Pilato non avrebbe saputo far di meglio e Marx avrebbe concluso che la strada per l’inferno è lastricata di nobili intenzioni. Il Pci era un partito strutturato e nazionale, con una sua linea che dal centro scendeva verso le periferie. Per cui non esisteva che i comunisti lametini o quelli cosentini dicessero “il posto giusto è la mia città” mettendo in difficoltà il segretario regionale calabrese. Queste cose le facevano i notabili democristiani, ciascuno dei quali coltivava il suo orticello in collegamento con il capo corrente romano di riferimento.
Si osservi come sia indicativa la lettera personale (in Luigi Ambrosi. Regionalizzazione e localismo) di un senatore democristiano, ex presidente della provincia di Catanzaro, a un giornalista reggino per esprimergli il consenso a“tutte le argomentazioni esposte a sostegno della tesi giusta che indica la piana Lametina, scartando la Montagna Cosentina [come sede dell’ateneo, Nda]. Mi auguro anche io che una intesa tra le due Province di Catanzaro e di Reggio Calabria valga a fuggire il pericolo di una soluzione pregiudizievole per l’intera Regione. Il Ministro […] ha dichiarato che soluzione da noi caldeggiata sarebbe più costosa e di più difficile realizzazione: evidentemente preferisce la montagna… per fare una cosa più modesta, meno costosa certamente, a carattere provinciale o addirittura intercomunale!”
Guido Crainz spiega bene che la «stagione dei movimenti» come quella di Reggio Calabria nacque da una promessa non mantenuta, da un riflesso di rabbia contro il depositario del potere locale incapace di farsi sentire a Roma. “Molte sono, certo, rivolte di campanile: resta però da capire perché le rivolte di campanile (o i «motivi di campanile», dentro le rivolte) diventino così importanti nella stagione stessa della riscoperta della politica”. La stagione del 1968.
D’altronde, proprio Giacomo Mancini, da ministro dei Lavori pubblici, aveva influenzato la scelta di localizzazione dell’autostrada A3 Salerno-Reggio a favore di un tracciato interno e montuoso, più disagiato e dispendioso di quello costiero e pianeggiante, che avrebbe però inglobato nel percorso la città di Cosenza, offrendole prospettive di crescita di sicuro ritorno elettorale [D’Antone 2007].
La scelta campanilistica di Mancini del percorso autostradale, ben prima dello scippo a Lamezia dell’università “residenziale come un campus americano”, ha condizionato questa nostra povera terra costringendo i lametini come tutti i calabresi a pagare pegno vita natural durante ai cosentini per tutti i loro spostamenti. C’era un percorso naturale sul Tirreno che col tempo si sarebbe dovuto completare con quello sullo Jonio (e la mitica 106). Ma la logica lasciò il passo alla pancia, il particulare prevalse sull’universale, e così come è avvenuto in tante altre regioni (a cominciare dalla Sicilia) la politica fu piegata dal potere del tornaconto personale.
E l’opposizione? Qui avviene il dramma che ancora paghiamo nel terzo secolo. Il potere lo esercita sul territorio il cacicco di turno, ma il Pci non si oppose anzi costruì quel consociativismo che (con la concertazione) è diventato il metodo sindacal-corporativo di gestione della cosa pubblica. E’ preferibile che siano gli abitanti del Palazzo piuttosto che gli elettori a scegliere chi li dovrà governare (come insegna il Conte Bis), questa è stata sempre la politica del Pci, sin da quando subiva la “conventio ad excludendum” e pur tuttavia riusciva a saper conciliare lo stare all’opposizione con qualche favore ricevuto di nascosto.
Una autostrada tirrenica avrebbe velocizzato e resi più comodi gli spostamenti su gomma; l’area centrale Catanzaro-Lamezia con l’università, le terme, l’agricoltura e l’aeroporto nella piana sarebbe stato con i suoi servizi il baricentro della Calabria; Reggio sarebbe stata il capoluogo ideale; Cosenza-Rende, con il suo territorio che va dalla Sila sino al Pollino, sarebbe stato un centro innovativo, non meno di oggi.
Oggi il fattore produttivo essenziale sono idee nuove, prodotti nuovi o processi nuovi. Infatti tutti coloro i quali, qualsiasi lavoro facciano, dovunque vivano, restano affezionati alla tradizione e osteggiano l’innovazione, sono destinati a guadagnare sempre meno e vivranno in città sempre più povere. Prima sono stati i nostri paeselli calabresi a svuotarsi, a favore delle città, adesso si lasciano le città non innovative per trovare lavoro fuori dalla Calabria. Il lavoro e quindi il reddito ci sarà e c’è dove c’è innovazione. Questo vale per la Calabria come per qualsiasi regione, per l’Italia come per qualsiasi nazione. Forse solo con i vaccini ci stiamo avvicinando a capire il valore grande del “capitale umano” e della scienza. Ci voleva una pandemia per mettere in crisi il populismo dei politici incompetenti che non capiscono la complessità dei problemi.
Mentre l’industria tradizionale come quella tessile continua a delocalizzarsi in Paesi in via di sviluppo, l’industria dell’innovazione continua a concentrarsi in poche aree chiave del mondo. Un laboratorio biotecnologico o elettronico è piuttosto difficile da trasferire altrove, perché non si tratta di spostare solo un’azienda, ma un intero ecosistema. Con il mercato globale il valore di un’idea nuova non è mai stato così alto, il fattore economico più prezioso non è il capitale fisico, o qualche materia prima, ma la creatività. Innovare quindi è una necessità, anche se per sviluppare il potenziale di una nuova tecnologia serve tempo, a volte secoli. (continua)