Terza parte
Perchè il Pci sacrificò in quel frangente Lamezia e preferì Giacomo Mancini? E perchè Catanzaro non ha mai accettato di costituire con Lamezia l’area centrale della Calabria? Perchè la politica consociativa è semplice ma sbagliata, quella riformista invece ti costringe a studiare a fondo i problemi per trovare la soluzione giusta e non quella conveniente. Solo ora nel 2021 con i vaccini cominciamo a capire che la politica non può essere circoscritta al sistema dei partiti ma neanche affidata a sprovveduti.
Istruttivo fu il dibattito dentro il Pci successivo ai moti dell’Aquila del 1971. Aprì le ostilità il vecchio Longo, osservando amareggiato che «c’è molta gente che è insofferente verso quelli che comandano, tra cui mette anche noi»; altri presero malinconicamente atto che «siamo confusi nel mucchio» (Alinovi), o che «c’è la tendenza al Sud a dire: i comunisti sono come gli altri» (Minucci); e altri ancora annotarono – a più riprese – che al Sud si diffonde la tendenza a dire «facciamo come a Reggio», di fronte all’inefficacia della lotta sindacale e politica per le riforme (Romeo e altri).
Nel caso di Lamezia “l’università subito al posto giusto” altro non era che l’ennesimo privilegiamento degli accordi di vertice. Non a caso Pajetta – ancora in relazione al disastro dell’Aquila – disse: «si crede che basti mettersi d’accordo con i Dc e il Psi per risolvere tutto».
Osservava criticamente già allora Vittorio Foa, collocando i fatti di Reggio in un contesto più generale, che vi era sullo sfondo un «nuovo rapporto fra maggioranza e opposizione», con una «onesta regola del gioco» in cui la maggioranza stessa fissa i limiti dell’opposizione, e in cambio tiene un po’ conto delle esigenze da essa proposte. Qui, già prima del «compromesso storico» (e del suo rapporto con la riflessione sul Cile) è possibile collocare la svolta più decisa in direzione del consociativismo: il tutto negli anni di più forte tensione e conflitto sociale.
Mi pare di capire che comincia allora, negli anni settanta, quel processo di chiusura dei partiti che ci ha portato al populismo, lo segnala l’assenza di risposte positive alle domande che i movimenti esprimevano. Le domande di trasformazione – è stato detto – non sono state «intercettate» dal sistema politico. Le mancate risposte politiche degli anni settanta contribuirono all’avvitarsi di differenti processi (ivi compresa la trasformazione dei «partiti in imprese predatorie e delle imprese in partiti»), in una sindrome che porterà poi alla necessità di una forte «spallata» per non affondare definitivamente. La «spallata» è poi avvenuta, prima con Antonio Di Pietro, poi con Umberto Bossi (Carlo Donolo). Fino ai giorni nostri quando la grillizzazione del mezzogiorno ha trovato nel populismo la più conseguenziale e logica rivolta alla politica clientelare ed eterodiretta dalle mafie.
Oggi abbiamo capito bene a cosa abbia portato quella visione che voleva risolvere e rinchiudere l’intera società nel «sistema dei partiti» – o a privilegiarne comunque le logiche. Da un lato la prospettiva dell’incontro fra le grandi componenti della società italiana (cattolica, socialista e comunista) ricondotte alla loro espressione politica organizzata; dall’altro la contemporanea affermazione della centralità dei partiti. Si pensi solo a quanto il Pci abbia tentato di evitare il referendum sul divorzio del 1974 che confliggeva con l’ideale che poi Berlinguer avrebbe definito “compromesso storico”.
Un sistema dei partiti sempre più autoreferenziale e dentro cui crescevano processi degenerativi ci ha portato al vaffa della politica e all’ “uno vale uno”, dunque alla politica squalificata affidata a sprovveduti ed arrivisti.
Lamezia aveva ragione, sarebbe stato il posto giusto per il campus universitario calabrese agognato da Andreatta, ma nessun riformista allora seppe difendere la decisione giusta. La decisione diventa giusta se prima si conosce e poi si delibera, se si guarda all’interesse generale e non a quello particolare, se si evitano gli accordi di vertice e i giochetti del do ut des di cui il clientelismo meridionale rappresenta il simbolo. La decisione è giusta se è la stessa sia se si sta all’opposizione che al governo.
Noi italiani siamo un popolo di improvvisatori che non amano la programmazione. I problemi li affrontiamo quando si presentano, non intendiamo prevenirli (la nostra terra ballerina calabrese innanzitutto ci dovrebbe indurre a fare quel che fanno in California o in Giappone) in un misto di fatalismo e superstizione che equipara l’ignoranza all’innocenza.
Quando invocavamo l’università, o la Provincia, noi lametini, ricordiamocelo sempre, siamo stati etichettati come “campanilisti”. Forse abbiamo finito per crederci davvero o forse siamo un popolo di gente pacifica abituati ad abbassare sempre la testa di fronte agli ordini del boss di turno o all’invasione dello straniero conquistatore.
La politica (destra e sinistra e centro assieme in un legame indissolubile) ci ha sacrificato sino a strapparci quello che solo la geografia ci aveva donato, la centralità regionale. Siamo stati civili ed educati, ma questo non significa che dobbiamo smetterlo di essere, in fondo Lamezia ha perso quanto l’intera Calabria.
Quelli che fanno tenerezza sono quelli che nel terzo secolo ancora predicano l’asse Lamezia-Catanzaro. Per sposarsi bisogna essere in due e non si vive di rimpianti. Dal legame con Catanzaro, come detto, poteva nascere l’area centrale della Regione, con l’università, i servizi, l’aeroporto, il mare e il turismo termale. Catanzaro non lo ha voluto ed è stato un errore tragico. Ha preferito svilupparsi verso Soverato e Botricello, verso lo jonio; basare tutto il suo modello economico sul terziario pubblico, sulle grandi opere pubbliche e sulla sanità, accentrando tutte le risorse e spoliando i territori vicini.
Non possiamo, rebus sic stantibus, che prenderne atto, noi lametini. Catanzaro ha scelto uno sviluppo senza Lamezia e senza la piana lametina, monopolizzando la gestione dell’aeroporto che ha sede sul nostro territorio. Catanzaro ci ha storicamente voluto “periferia” e considerato un suo quartiere o Municipio, senza capire che le due città, pur mantenendo la propria autonomia, avrebbero potuto integrarsi con reciproco vantaggio. Ma è andata così ed è inutile piangere sul latte versato.
Da quel Pci che appoggiò Mancini invece di Lamezia sacrificando la decisione giusta sull’Università calabrese abbiamo imparato che “destra” e “sinistra” possono non avere più significato nel mare del “consociativismo”; che il riformismo ( o l’opposizione, pacifica e senza far ricorso alla violenza) su ogni questione deve “saper” trovare una soluzione giusta. Per sapere quale sia bisogna studiare in modo approfondito le problematiche e affidarsi a veri esperti. Che un ministro degli Esteri, per fare un esempio, conosca l’inglese, il popolo italiano potrà considerarlo un giorno scontato?