Era proprio il 17 marzo del 1861 che vedeva la luce il Regno d’Italia, stato unitario. Camera e Senato, riuniti a Palazzo Carignano di Torino, approvarono la legge 4671 del Regno di Sardegna, diventata poi la legge nr. 1 del Regno d’Italia.
Non sono qui né ad osannare l’avveduta scaltrezza politica del Cavour né, preso dal patrio sacro furor garibaldino, celebrare le imprese belliche dell’esule nizzardo Garibaldi, bensì per “festeggiare” i 160 anni dell’Unità dell’Italia che pur colpita, come ha sottolineato, qualche giorno fa l’on. Presidente Mattarella, “dall’emergenza sanitaria ha dimostrato ancora una volta spirito di democrazia, di unità e di coesione. Nel distanziamento imposto dalle misure di contenimento della pandemia ci siamo ritrovati più vicini e consapevoli di appartenere ad una comunità capace di risollevarsi dalle avversità e di rinnovarsi”.
Gli ha fatto eco il presidente della Camera on. Fico che ha aggiunto “molto resta da fare per garantire la reale coesione tra le varie parti del nostro Paese.
Permangono, ed in alcuni casi si sono addirittura aggravate, diseguaglianze territoriali, economiche e sociali. L’impegno primario deve dunque essere quello di adoperarsi per superare questi divari inaccettabili che minano il senso di comunità alla radice e soffocano lo sviluppo del nostro Paese. Per farlo abbiamo l’occasione imperdibile di un piano nazionale di ripresa e resilienza che deve puntare a far ripartire il Paese annullando le disparità tra i vari territori”.
Parole belle che nel momento attuale ci fanno sentire più italiani di qualsiasi altro giorno perché la disgrazia che stiamo vivendo ci unisce e nel frangente pandemico la parola “unità” assume un valore ed un sapore diverso e fortifica la voglia di collettività e di senso comune.
Ma non entusiasmiamoci più di tanto perché passata l’emergenza non saremo più “vincoli” bensì “sparpagliati” su un territorio sul quale insistono, da sempre, due Italie e venti conventicole che vanno ciascuna – mi sia consentito – per i cazzi propri.
E se han senso e ragione i corsi e ricorsi storici del Vico, stiamo per rivivere, se non nei fatti, quella stessa atmosfera che si percepì nel 1861 – data cara agli italiani veraci, non agli autoctoni – che segnò persecuzioni, dolori e lutti particolarmente per i calabresi.
Alludo al brigantaggio che, lo ricordo al colto ed all’inclita, non era e non fu il padre della ‘ndrangheta bensì espressione ed esasperazione delle misere condizioni vitali della classe dei contadini e dei pastori che non ebbero opzioni diverse: morire per fame o farsi giustizia con le proprie mani visto che dalle novelle istituzioni non veniva alcun mutamento del loro miserrimo status.
E qui finiscono le memorie storiche – bada bene mio attento lettore – da non confondere con i fattoidi, concetti di quattro amici al bar, entità virtuali che diventano propagandisticamente reali.
Ebbene alla “cartolina” descritta 160 anni fa, lascia pure indenne il paesaggio, cambia solo fogge, modus vivendi e l’inevitabile work in progress. Cosa ti ritrovi tra le mani?
Una regione il cui nome è sinonimo di malavita, corruzione, malasanità e abbandono; una regione in cui il tasso di disoccupazione si stacca dal resto della Penisola di 11 punti percentuali, impennandosi particolarmente nella fascia di età giovanile e collocandosi fra le peggiori 15 regioni europee; una regione il cui nome, anziché evocare i fasti della Magna Grecia, la ricchezza delle sue risorse naturali e artistiche, fa salire nell’aria l’odore acre ed il sapore amaro della sconfitta per quasi 2 milioni di persone, la cui unica colpa è quella di essere nati in Calabria…
Sì, il 17 marzo è stato l’anniversario dell’Unità d’Italia (o annessione?), unita chiaramente solo sulla carta: noialtri, qui in Calabria, abbiamo ricordato 160 anni in cui differenze e spaccature si sono piuttosto evidenziate, le ferite incancrenite e l’orgoglio lacerato.
Le alte cariche dello Stato potranno anche infarcirsi la bocca di belle parole ed affrancare l’anima con buoni propositi, ma resta evidente che – come scrisse Orwell – “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri”.
Ebbene la misura è colma e quel che più rammarica è la mancanza di un ruolo e di una visione organica e strutturata da dare a questa regione, da sempre gabellata con parole tipo “programmazione, pianificazione, prevenzione, inserite nei programmi elettorali di politici, nazionali e regionali, ma poi subito dimenticate o svuotate di ogni significato. Passata la festa gabbatu lu santu, recita una celebre espressione dialettale.
E’ stato così per il V Centro siderurgico, per l’ex Sir (Società italiana resine) da sogno industriale a grande disastro; è così per il porto di Gioia Tauro, uno scandalo senza rimedio condannato ad un inesorabile triste destino. Mai visto da nessuna parte un porto senza marinai!
Tralascio, poi, le operazioni di piccolo cabotaggio e gli interventi spot perché è acqua che non macina il mulino, ma mi ripeto, le cause sono sempre riconducibili alla mancata visione di un programma di sviluppo attagliato alle reali esigenze dei territori ed all’incapacità dei politici di guardare oltre la siepe.
E la beffa continua: oggi qualche cazzaro torna a sventolare la bandiera del Ponte sullo Stretto ed il rilancio del Porto di Gioia Tauro terminal container, già escluso dal piano dei porti transhipment (n.d.r. trasbordo) di Genova e Trieste, per i quali sono stati già stanziati centinaia di milioni.
Vogliamo poi parlare del Recovery Plan che penalizza ulteriormente il Mezzogiorno e la Calabria? E’ sparita dai piani, finanche, l’Alta Velocità ferroviaria Salerno – Reggio Calabria che, già nel piano del Governo Conte, era diventata semplice velocizzazione della linea.
Dei 209 miliardi destinati all’Italia per ossigenare il suo asfittico bilancio e riequilibrare la sperequazione territoriale Nord/Sud (trasporti, collegamenti ferroviari e stradali, ammodernamento della pubblica amministrazione, potenziamento della assistenza sanitaria, ecc.) nella bozza discussa qualche settimana fa a Palazzo Chigi, la quota per lo sviluppo del Meridione, già fissata al 34%, per il criterio di scelta adottato – numero degli abitanti di ogni singola regione – sicuramente sarà rivista al ribasso.
Di conseguenza è ovvio che la Calabria, come tutto il Sud, ne uscirà ulteriormente penalizzata.
Animati, quindi, i calabresi, da spirito rivendicazionista, disdegnano di vestire i panni di sacrificali e piagnucolosi agnelli e stanchi di rappresentare un sud nel sud, sono ben consapevoli che in questa spirale di responsabilità del governo centrale, vanno aggiunte quelle del ceto politico locale, della burocrazia, della ‘ndrangheta, degli imprenditori collusi e perché no, di quel 45% di calabresi che vota certamente non per convinzione politica.
Non sto a tediarvi con quanto sta avvenendo – vergogna nazionale – ai vertici del parlamentino calabrese dove, oltre alle vicende giudiziarie che hanno interessato gli alti vertici, si è scatenata la corsa alle assunzioni non solo degli eterni precari, ma di portavoce, di portaborse che appartengono all’ampia schiera di questuanti e prosseneti, mentre l’on. Spirlì, presidente per caso, riscuote solo la simpatia del suo Salvini.
Non so se quanto sta avvenendo rientri o meno nell’ordinaria amministrazione – tanto è demandato alla magistratura – però, pandemia imperante, girano gli zebedei nel dover riscontrare lo stato confusionale che regna a livello dei dipartimenti regionali e della sanità in particolare.
Sic stantibus rebus, se a destra s’ode uno squillo di tromba e a sinistra risponde uno squillo… (non so se Manzoni volesse, del Conte di Carmagnola, farne un fascista o un comunista) non so proprio da che parte girarmi. Certo così non si può andare avanti, per cui ci potrebbe salvare il ritorno alle origini: LA GRANDE BELLEZZA DELLA NATURA – e quel giorno il turismo non sarà più una parola senza significato – e la GENEROSITÀ di una terra fertile e prodiga di ogni bene.
Certamente le due Italie non sono nate perché al Sud, dopo la sua annessione spacciata per liberazione, vivano scansafatiche ed opportunisti bensì per pura scelta politica governativa perseguita, piaccia o non piaccia, da 160 anni.
Finiamola, quindi, con la retorica di regime perché al di là della siepe alligna l’esasperazione non la rassegnazione.