Anche con il passaggio da Zingaretti a Letta lo schema strategico del Pd non è cambiato, al netto di qualche gioco di parole o di prestigio.
Per battere la destra occorre la sinistra e quindi quello che il solipsista Bersani chiama da decenni “il campo”, “la tenda” o come volete, altro non è che l’Ulivo, nel migliore dei casi perché significa che sia stato individuato il nuovo Prodi, oppure il BisConte, come prosaicamente si chiama l’esperienza più trasformista della recente storia repubblicana, la maschera di progressista che Conte si è messa togliendosi quella reazionaria che portava prima, schiavo di Salvini e della sua politica di chiusura.
Il presunto realismo di Goffredo Bettini, convinto che o ti mangi stà minestra (l’alleanza con il M5s) oppure vince facile Salvini alle prossime elezioni, è riproposto tale e quale anche adesso che non un complotto internazionale (povero Mattarella cosa gli tocca sopportare) ma il venir meno della maggioranza per l’uscita di Iv, ha portato al governo Mario Draghi, l’unico italiano capace non solo, come si dice, di dialogare con i partner europei, ma anche di guidarli e spronarli come sta dimostrando in varie occasioni.
Come si sta comportando il Pd con Draghi? E’ presto detto, lo considera neanche un governo “amico” (che già sarebbe il minimo) ma un governo di transizione, vale a dire un governo che oggi c’è e domani, dopo le elezioni, non ci sarà più. Dunque, fare come se non ci fosse e incalzarlo su ciò che interessa i ceti di riferimento del Pd (pensionati e pubblico impiego). Basterebbe elencare le richieste che il Pd e Landini portano al governo per capire che Draghi è tirato dalla giacchetta soltanto per evitare che ascolti troppo Salvini.
Questi altro non è in questo momento in Italia che il campione dell’homo economicus, il politico che rappresenta tutti coloro i quali vogliono lavorare e aprire i negozi. Prima era quello che in Lombardia l’anno scorso negava ci fosse la pandemia e non voleva zone rosse, oggi è il portavoce di tutti quelli che non ce la fanno più a tenere chiuse le attività, ristoratori, addetti al turismo e imprenditori. Così il Pd è il partito di quelli che lavorano da casa, per esemplificare un cancelliere di tribunale, senza aver perso un euro dal marzo 2020; mentre la destra è il partito di tutti quelli che la pandemia ha danneggiato sul piano economico. E’ facile capire che i danneggiati alle prossime elezioni peseranno di più.
Ma il Pd non se ne cura impegnato com’è ad andare dietro ai grillini. “Non è polemica: è un fatto che il Movimento in questo momento non sia niente, non dica niente, non produca niente, paralizzato da una querelle giuridica di scarso livello (a chi appartiene l’elenco dei militanti, al partito o alla Casaleggio Associati, come si sarebbe detto un tempo, a Forza Italia o alla Fininvest?), un garbuglio che blocca l’ascesa di Giuseppe Conte a leader del Movimento. Risultato, nessuno decide niente. E il Partito democratico ci fa la figura dell’amante non respinto: nemmeno considerato”. In questo rincorrere quella che Mario Lavia ha definito su il Foglio “l’alleanza con Belfagor”, il fantasma del Louvre, la strategia del Partito democratico alla caccia del Movimento cinque stelle rischia di produrre effetti imbarazzanti sul piano logico più che su quello politico.
In realtà, se non fosse bloccato su questo schema di alleanza, il Pd avrebbe l’alternativa allo stato di cose, avrebbe Draghi e il suo riformismo (che per esemplificare riassumiamo nel Piano di ripresa) come proposta politica sino alle prossime elezioni. Sarebbe il draghismo la carta d’identità del moderno riformismo che vuole vincere le elezioni. Quindi innanzitutto il Pd oggi dovrebbe escludere a priori che Draghi venga fatto assurgere al Colle (promoveatur ut amoveatur) e quindi dovrebbe dargli il tempo necessario per realizzare le riforme presentate all’Europa. Mario Draghi infatti non può farcela da solo senza l’appassionato sostegno del Pd, alle prese con l’emergenza della pandemia e l’urgenza di una economia che da decenni è bloccata e incapace di produrre ricchezza.
L’impostazione che Mario Draghi ha dato al Piano di ripresa e resilienza è genuinamente riformista ma non nel senso ideologico che conosciamo bene da una vita, vale a dire in senso anticapitalista e statalista (e oggi facendo diventare la decrescita infelice la bandiera dell’ambientalismo). Il cuore della linea del presidente del Consiglio sta infatti nel voler adoperare le riforme strutturali come premessa per garantire la produttività e la ricchezza: lo ha definito il debito buono. Si tratta pur sempre di un Piano di un governo di unità nazionale quindi non è un documento di parte ma è certo fortemente caratterizzato. E’ facile prevedere che sarà il momento della sua applicazione ad aprire qualche conflitto nella stessa maggioranza.
Ma se il segno del draghismo è evidentemente riformista e progressista quali sono le forze politiche, intellettuali, economiche che possono essere considerate di supporto? Le riforme che il presidente del Consiglio vorrà e dovrà realizzare pongono una domanda cruciale che si riassume in queste parole di Giorgio Tonini, già fra i principali dirigenti e parlamentari del Partito democratico: «È possibile realizzare un così vasto e ambizioso programma riformatore, sia pure in un contesto reso favorevole dalle politiche espansive europee, senza un partito o una coalizione riformista che ne faccia la bandiera della sua lotta politica, che su quell’ambizioso programma chieda e ottenga un mandato esplicito dalla maggioranza degli elettori? La storia d’Italia ci dice che la risposta non può che essere negativa».
Nell’era della post-politica, dopo il fallimento della politica del Vaffa e dei No a tutto, qual è il soggetto riformista capace di prendere questa bandiera tra le proprie mani?
Il problema si porrà quando sulla realizzazione concreta del Piano ci sarà da fare una lotta politica, con interessi da difendere e altri da attaccare, con scelte politiche insomma che non saranno neutre: è molto probabile che sovente la destra sarà contro Draghi, questo è certo, ma chi lo sosterrà? Si possono fare due esempi.
Draghi al vertice europeo di Porto ha preso di petto la questione delle diseguaglianze in Italia, ricordando che i progetti e i tanti soldi del Piano sono strumenti per ridurle, ma indicando nel fisco e nel mercato del lavoro i terreni giusti su cui combatterle. Vuol dire sottrarre il tema delle diseguaglianze alla propaganda di destra e sinistra, e farsene carico con un approccio nuovo. La visione di Draghi entrerà in contrasto sia con quelli che con il decreto “Dignità” affermavano di aver sconfitto la povertà, sia con il populismo fiscale di chi propugna la flat tax.
Oppure si pensi alla questione Ilva, davvero esemplare per la Transizione. Al contrario di quello che pensa Grillo, Cingolani per Ilva, più di qualunque altro settore, indica un processo di modernizzazione che è lungo, articolato e complesso, non di spegnimento e riaccensione, ma di transizione appunto: “Non possiamo chiudere e mettere per strada migliaia di lavoratori, ma neanche possiamo pensare che lo stato possa intervenire su tutto. Transizione – ha detto Cingolani – vuol dire garantire un compromesso tra ambiente e sostenibilità sociale.
Insomma per il Pd rompere la subalternità con il partito-Belfagor dell’avvocato del popolo e diventare il partito delle riforme è una necessità che gli attuali gruppi dirigenti non si sa quanto siano in grado di capire.