Comincio dai fatti perché non è che oggi tutti possano seguire tutto. E’ accaduto domenica 25 luglio alla festa di Articolo Uno a Bologna. Travaglio era l’ospite d’onore. Ha dato del “figlio di papà” a uno come Mario Draghi che è rimasto senza padre a 15 anni e senza madre poco dopo. La sua colpa è che in classe al liceo stava con Luca di Montezemolo e Magalli. Ha poi aggiunto che Draghi “è un curriculum ambulante e che non capisce un c….”. Ovazione dei compagni presenti: Marco sei uno dei nostri. Il ministro Roberto Speranza che quei compagni rappresenta nel governo e che Draghi, in un momento di debolezza, ha confermato nel governo dopo aver cambiato tutto il resto, ha scelto le parole della sua presa di distanza al chiaro scopo di non offendere Travaglio, pertanto ha definito «uscita infelice»un discorso che cominciava con le parole «figlio di papà» e finiva con «non capisce un cazzo».
Ha detto un vecchio compagno come Gianni Cervetti (87 anni) che uno come Travaglio non andrebbe “invitato ma solo aiutato”. E dice che dovrebbero farlo i suoi colleghi del Fatto Quotidiano, i suoi amici, la sua redazione “che può anche pensarla come lui ma mai dirla con la lingua avariata che utilizza lui”. Dovrebbe essere il suo giornale a chiedere a Marco Travaglio: “Ma ti sei visto? Cosa stai diventando? Non capisci che ci danneggi?”. Tutto qui? Il problema non è più lui ma chi gli chiede: “Spiegaci il mondo”. La lingua di Travaglio è quella dell’intimidazione. E’ il contrario di tutto quello che è la sinistra. Questa è solo la lingua da marciapiede”.
Dopo i fatti, ragioniamo.Cominciamo con una domanda. Cosa avrebbero detto – Speranza e molti altri suoi compagni – se le stesse testuali parole su Draghi le avesse pronunciate Matteo Salvini?
L’ illustre critico d’arte Tomaso Montanari che ormai bivacca in tv a spacciare la parte per il tutto e se stesso per l’unico comunista rimasto in circolazione, ha passato tutto un pomeriggio su twitter difendendo l’esattezza della definizione «figlio di papà», in quanto Draghi sarebbe stato compagno di classe di Luca di Montezemolo e Luigi Abete.
Come ha puntualmente sottolineato su Linkiesta Francesco Cundari, il punto non è se Draghi sia un figlio di papà, abbia i piedi storti o l’alito pesante; il punto è che questo è il genere di argomenti utilizzati dall’equivalente italiano dell’estrema destra trumpiana. Che c’entra Trump con Montanari & Travaglio? Donald Trump se la prendeva con Nancy Pelosi chiamandola «Crazy Nancy». La destra di Trump è il modello di quel preciso mix di rovesciamento della realtà e hate speech che consente a Travaglio di presentare Draghi come l’incompetente – a paragone di Conte! – e al tempo stesso di associarlo a ogni possibile stereotipo capace di suscitare l’ostilità del pubblico («figlio di papà» che «non capisce un cazzo», a meno che non si parli di «finanza», in quanto ex «banchiere europeo»), esattamente come con Marta Cartabia (incapace di distinguere «un tribunale da un phon») e con ogni altro bersaglio gli sia mai capitato a tiro.
Tutto questo non è purtroppo una novità. La prima conclusione che vorrei trarre dai fatti riportati è una semplice presa d’atto notarile: gente che utilizza questi sistemi ed esprime questa cultura viene oramai spacciata come di sinistra, o addirittura come la vera sinistra. I compagni bolognesi non sbagliano, applaudono.
Ma procediamo con il ragionamento.Resta una questione non secondaria, data dal fatto che Roberto Speranza è ministro della Sanità nel governo guidato dall’uomo al quale Travaglio ha rimproverato di non capire un cazzo, in particolare, proprio di sanità (oltre che di giustizia, ovviamente). E in quell’occasione era anche il padrone di casa, in qualità di dirigente di Articolo 1, che sarebbe il micropartito promotore della festa in cui il direttore del Fatto ha pronunciato la sua invettiva (anche micropartito è definizione tecnica, tenuto conto che Articolo 1 rappresenta metà, ma sarebbe più esatto dire un terzo, di Liberi e Uguali, formazione arrivata a stento oltre la soglia di sbarramento e già tornata a dividersi nelle due componenti originarie: Articolo 1 e Sinistra italiana).
Ora, il partitino del ministro Speranza confermato da Draghi nella sua postazione, ha invitato Travaglio per essere intervistato, da solo, sul suo ultimo libro («I segreti del Conticidio»), dedicato all’illustrazione del come e del perché quelli che non capiscono un cazzo avrebbero complottato per rovesciare il governo di quelli che capivano tutto. Ma il bello deve ancora venire, e il bello in questo caso per me corrisponde ad una questione storica importante.
Nella stessa occasione s’è registrato un significativo duetto tra Pier Luigi Bersani e Andrea Scanzi. Titolo del dibattito: «Quello che ci unisce: politica e non solo». Riprendiamo i fatti.
Incipit di Scanzi: «Sai cosa, Pier Luigi, io pensavo subito… vedendo tutte queste persone e questo affetto, io comincio proprio da qui: se te ne rendi conto, quanto sei apprezzato e quanto ti vogliono bene. Io lo capisco anche dai social: ogni volta che faccio un post su di te, decine di migliaia di like. È difficile che tu sia divisivo. Per carità, non piacerai ai fascisti, alla destra estrema, è ovvio, però c’è una stima nei tuoi confronti totale, come te la spieghi? Forse addirittura più di cinque, sei, sette anni fa. Perché tutto questo affetto? Perché piace così tanto, oggi, Pier Luigi Bersani?».
Ecco, interroghiamoci, ne vale la pena. Cosa unisce Bersani e Scanzi a parte lo smisurato spazio che La7 gli dedica gratis et amore Dei? Cos’è che nel 2021 unisce il partito fondato da Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema al mondo grillino e paragrillino?
Cosa li unisce oggi anche sui social? Rammentate che nel 2012 Bersani li definiva «fascisti del web», identificando nell’antipolitica il principale nemico della «riscossa civica» che il Partito democratico si proponeva di suscitare, e prendendosela con «tanti osservatori e commentatori che metton tutto nel mucchio», descrivendo tutti i partiti come fossero cadaveri ambulanti.
«Attenzione – alzava la voce l’allora segretario del Pd – nelle crisi ci può sempre essere la tentazione di vedere chi abbaia più forte, e anche con forme che possono nascere da tutti i lati ma finiscono sempre a destra. Io vedo, anche rivolto al nostro partito, voglio dirlo da qui, correre sulla rete dei linguaggi del tipo “siete degli zombi”, “siete dei cadaveri ambulanti”, “vi seppelliremo”, “vi seppelliremo vivi”: sono linguaggi fascisti, fascisti, e a noi non ci impressionano, non ci impressionano! Vengano a dircelo, vengano qui a dircelo! Via dalla rete, venite qui a dircelo!» (Festa dell’Unità di Reggio Emilia, 26 agosto 2012).
Allora, con indiscutibile precisione filologica, Bersani denunciava «un linguaggio che ricorda quello del ’19», riferendosi esplicitamente al primo fascismo. Un anno prima, in risposta a una domanda di Luca Telese, Massimo D’Alema scandiva: «Non parlo con la stampa tecnicamente fascista: non parlo, quindi, con Il Giornale, con Libero, con Panorama e con il Fatto» (il Fatto quotidiano, 22 luglio 2011).
Dunque, che cosa è successo? Cosa ci siamo persi in questo lasso di tempo? Come è potuto accadere che i due dirigenti più strettamente identificati con l’orgogliosa difesa del ruolo dei partiti e della politica organizzata contro ogni suggestione antipolitica siano diventati i più strenui sostenitori di Conte, i più fermi alleati del Movimento 5 stelle e i più affezionati lettori del Fatto quotidiano?
Se la politica di questi anni avesse un senso, sarebbe stato naturale aspettarsi una simile convergenza, semmai, da parte di Renzi, cioè del principale rivale di Bersani e D’Alema all’interno del Pd, il teorico della rottamazione che se la prendeva con i padreterni della sinistra. E in effetti, nella fase iniziale della sua ascesa, Matteo Renzi ha raccolto consensi significativi in quel mondo. Da quando però il rottamatore è divenuto non più il guastatore, ma il leader della sinistra, tutto è cambiato. E i ruoli si sono rovesciati.
Il punto cruciale del ragionamento è dunque il seguente:
Travaglio e gli altri intellettuali del populismo italianonon hanno fatto altro che lanciare contro Renzi, con perfetta coerenza, le stesse accuse a suo tempo rovesciate contro D’Alema. All’epoca della bicamerale parlavano di «Dalemoni», denunciando come un piano diabolico e para-eversivo il «patto della crostata» siglato dal leader della sinistra con Silvio Berlusconi. Nel momento in cui Renzi tentava la stessa strada, obiettivamente, non poteva stupire che il Fatto parlasse di «Renzusconi» e denunciasse come un piano diabolico e para-eversivo anche il «patto del Nazareno». Stupisce che lo facesse D’Alema.
Escluso dunque che i fascisti del web e il giornale tecnicamente fascista del 2011-2012 siano cambiati radicalmente da allora, non restano che due possibili conclusioni: o non lo erano neanche prima, e Bersani e D’Alema sbagliavano a qualificarli così, o sono cambiati loro.
In tal caso, però, Cundari ha segnalato un ulteriore paradosso che è il seguente: D’Alema e Bersani, due dei dirigenti più impegnati per decenni nel combattere le derive populiste e antipolitiche della sinistra, giunti a settanta anni avrebbero dato un significativo contributo a riportarla esattamente su quelle posizioni. Tra gli applausi, più che comprensibili, di chi su quelle posizioni è sempre rimasto.