Non c’è bisogno di predisporre lo specchio recettivo della curiosità, anatomizzare parola per parola il precipitato verbale di questi ultimi comizi elettorali per farsi un’idea valida, per coglierne l’aura generale e dominante. Si tratta per lo più di comizi che gli interlocutori dirigono con una concitazione decisamente spropositata rispetto alla tenuità dell’argomento trattato. Non sempre la navigata ricetta di battere il pugno sul palco vale ad accendere il nostro spirito politico-identitario. Si incorre solo nel rischio di spezzarsi le falangi.
Ma si insiste a gridare nel deserto del significato e così tutto finisce col deformarsi nel grottesco. Un po’ come in quelle televendite vintage dove il presentatore si infervorava di spirito partecipativo e ansimava a tal segno che a lungo andare non si capiva se vendesse posate od organi umani.
Trattando di politica è a mio giudizio preferibile lo sguardo rozzo e spregiudicato delle altitudini, quello magari di chi non mastica il politichese piuttosto di quello che s’intana negli ambagi, che si addentra nel nome della rosa di quelle trame dipinte, in quello che è stato detto dal tal dei tali, le note a margine, i cascami narrativi, quella roba, insomma, in cui si perde il sugo, e che a conti fatti rappresenta tutto l’armamentario ludico e dispersivo su cui la politica fonda la sua permanenza ad onta di un vuoto cubitale. Il suo motto potrebbe essere il vecchio: “calunniate, calunniate, qualche cosa resterà”. Ogni dibattito prefigurato e confezionato per condurre ad una fatale inconcludenza rappresenta l’ennesimo invito a una partita a calcetto insaponato. Un gioco goffo e caricaturale che a conti fatti ci prende senza che si sappia veramente il perché.
E ci basta. O meglio finisce per bastarci. Tanto, assolti i doveri politici – mi riferisco limitatamente a quelli sottobanco verso chi ha espletato la sua piccola campagna – il loro mandato può nei casi migliori circoscriversi nell’area della buona amministrazione. Che è, purtroppo, anche quanto di meglio possiamo augurarci.
Ma si insiste a gridare nel deserto del significato e così tutto finisce col deformarsi nel grottesco. Un po’ come in quelle televendite vintage dove il presentatore si infervorava di spirito partecipativo e ansimava a tal segno che a lungo andare non si capiva se vendesse posate od organi umani.
Trattando di politica è a mio giudizio preferibile lo sguardo rozzo e spregiudicato delle altitudini, quello magari di chi non mastica il politichese piuttosto di quello che s’intana negli ambagi, che si addentra nel nome della rosa di quelle trame dipinte, in quello che è stato detto dal tal dei tali, le note a margine, i cascami narrativi, quella roba, insomma, in cui si perde il sugo, e che a conti fatti rappresenta tutto l’armamentario ludico e dispersivo su cui la politica fonda la sua permanenza ad onta di un vuoto cubitale. Il suo motto potrebbe essere il vecchio: “calunniate, calunniate, qualche cosa resterà”. Ogni dibattito prefigurato e confezionato per condurre ad una fatale inconcludenza rappresenta l’ennesimo invito a una partita a calcetto insaponato. Un gioco goffo e caricaturale che a conti fatti ci prende senza che si sappia veramente il perché.
E ci basta. O meglio finisce per bastarci. Tanto, assolti i doveri politici – mi riferisco limitatamente a quelli sottobanco verso chi ha espletato la sua piccola campagna – il loro mandato può nei casi migliori circoscriversi nell’area della buona amministrazione. Che è, purtroppo, anche quanto di meglio possiamo augurarci.