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IL TEMPO DELLA COMPLESSITÀ
Abbandonata l’idea di un universo perfetto, ordinato ed eterno, la condizione dell’uomo contemporaneo si colloca in un gigantesco cosmo in espansione, formato da miliardi di galassie con miliardi di stelle ciascuna. La cultura contemporanea è consapevole della “complessità” della vita umana e della piccola porzione di Universo in cui l'Uomo si è evoluto, la Terra.

«Complessità» è il termine che si contrappone a semplicità.
E’ un termine che viene dal verbo latino «complector», ossia cingere, unire tutto insieme, e per metafora riunire in una sintesi concettuale una porzione di reale.
Il più importante teorico della complessità è il sociologo Edgar Morin che ha affermato che «v’è complessità quando sono inseparabili le differenti componenti che costituiscono un tutto […] e quando v’è un tessuto interdipendente, interattivo e interretroattivo fra le parti e
il tutto e fra il tutto e le parti».

Abbandonata l’idea di un universo perfetto, ordinato ed eterno, come per secoli è stato con Platone e la filosofia cristiana fino all’idealismo e al positivismo, la condizione dell’uomo contemporaneo si colloca in un gigantesco cosmo in espansione, formato da miliardi di galassie con miliardi di stelle ciascuna. La cultura contemporanea è consapevole della “complessità” della vita umana e della piccola porzione di Universo in cui l’Uomo si è evoluto, la Terra.

Questa consapevolezza è un’ulteriore umiliazione nei confronti della presunta centralità dell’uomo: la scienza contemporanea, la filosofia della seconda metà del Novecento, la fisica quantistica delle particelle ci rivelano un Universo in cui la Terra occupa una parte del tutto insignificante, in cui disordine e organizzazione coesistono, in cui natura e cultura sono contemporaneamente presenti nell’uomo, la cui psiche cerca continuamente un equilibrio per costituirsi come un Io cosciente, regolatore del proprio mondo interiore ed esterno.

E’ tale fattore che ha consentito all’uomo di essere diverso rispetto a tutti gli altri viventi: la capacità di cogliere il mondo esterno all’io come una realtà su cui agire per modificarla attraverso le “tecniche”: c’è continuità dall’utilizzo dello strumento pietra ai sofisticati congegni dell’elettronica e della telematica.

L’uomo non adatta il proprio corpo all’ambiente, secondo le leggi dell’evoluzione di Darwin, ma modifica l’ambiente per adattarlo alle proprie necessità, violando la Natura.

Forse è questa la colpa originaria di cui ci parla l’ateniese Platone.

Platone (V-IV sec. a.C.) racconta a modo suo l’origine della colpa col mito di Prometeo già presente in Esiodo (nel greco antico aitìa ha il doppio significato di colpa e di causa):

“C’era un tempo in cui esistevano gli dei, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando poi anche per queste venne il tempo destinato per la loro creazione, furono gli dei a foggiarle, nell’interno della terra, mescolando terra e fuoco e quelle sostanze che si fondono con fuoco e terra. E quando era destino che dovessero portarle alla luce, assegnarono a Prometeo e ad Epimeteo l’incarico di fornire e di distribuire facoltà a ciascuna razza come si conviene. 

Epimeteo chiese al fratello di poter procedere lui alla distribuzione ma, sprovveduto come dice il suo nome, si rese conto di non aver più facoltà da assegnare quando venne il turno dell’uomo. Prometeo, allora, trovandosi in difficoltà circa il mezzo di conservazione che potesse trovare per l’uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme al fuoco, perché senza il fuoco era impossibile acquisirla o utilizzarla, e così ne fa dono all’uomo… Ma in seguito, come si racconta, Prometeo, per colpa di Epimeteo, venne punito per quel furto.” (Platone, Protagora)

Eschilo  nella tragedia Prometeo incatenato (V sec. a.C.), apre la scena con una grande rupe ai confini del mondo alla quale è incatenato Prometeo, punito da Zeus perché aveva donato agli uomini il fuoco, che prima era un dono degli dei, per renderli padroni della tecnica e per costruire gli strumenti necessari a difendersi dalla Natura.

Anche nell’altra grande tradizione del mondo occidentale, quella giudaico-cristiana, Adamo ed Eva disubbidiscono al comando di Dio di non mangiare i frutti dell’albero del bene e del male, e perdono il Paradiso terrestre. Adamo dovrà lavorare per ottenere quanto la Natura offriva spontaneamente, ed Eva conoscerà il dolore del parto. La necessità del lavoro e la presenza inevitabile del dolore costituiscono l’essenza della vita umana.

Ma l’umanità ebbe anche in dono da Dio il potere di dare i nomi alle cose: Il lògos e il linguaggio (nel greco antico lògos significa ragione ma anche parola) che, differenziando l’unità indistinta dell’Essere, apriranno lo sguardo umano alla conoscenza del mondo.

Più volte nel corso della storia la punizione della disubbidienza dell’uomo, la sua tracotanza titanica e prometeica, hanno trovato rappresentazione nella letteratura e nell’arte: l’Ulisse dantesco, il Faust  di Goethe, Il disagio della civiltà di S. Freud, l’angoscia del limite umano nella pittura di Van Gogh e di Ed. Munch.

Nel racconto di Esiodo (Teogonia), all’era di Cronos e dei Titani è poi subentrato il Cosmo ordinato degli dei olimpici con leggi che governano il mondo.
Leggi che la ragione scopre come idee immutabili in Platone, o garantite dalla Divina Provvidenza nella filosofia cristiana, oppure leggi che l’uomo può scoprire autonomamente con le idee chiare e distinte di Cartesio o le categorie dell’intelletto kantiane. E’ il mondo della modernità, della volontà di potenza, del trionfo della scienza e della tecnologia sulla Natura. Gli antichi greci direbbero ùbris (presunzione), e i loro miti raccontano la punizione di chi se ne macchia.